L’ANGELICA

I massimalisti si chiamavano così perché erano per il "pro gramma massimo", mentre i riformisti erano per il "program ma minimo". Ma ora si chiamavano ufficialmente intransigen ti, o integralisti, o rivoluzionari che dir si voglia. Si riunirono in mattinata nel salone della "Posta", il bello ma vecchio e buio albergo di Piazza del Monte, a un passo da Piazza del Duomo. Ne aveva di anni, il Posta. Era stato la residenza del Capitano del Popolo nel Medio Evo e ne portava ancora i segni, nelle bifore, in qualche colonna. 

Poi era diventato la stazione di Posta, con locanda. 

Le carrozze entravano dal didietro, dalla parte del Vescovado, e smontavano viaggiatori, bagagli e posta nel cortile. Qualche anno dopo il Congresso, si sarebbe trasformato e rinnovato, in un bel ma troppo taroccato gotico, opera dell’architetto Tirelli, che fu una specie di Coppedè reggiano, tutto torrette e tortiglioni, ma di grande decoro.

Morì giovane, stranamente, uno dei primissimi caduti per un incidente aereo di linea, in Spagna. Gli "intransigenti ", quelli che non volevano transigere, nemici dichiarati dei riformisti, arrivavano dalla stazione isolati o a gruppetti. 

I capi, si capisce, perché i delegati "semplici" dovevano ac- contentarsi di locande più a buon prezzo. Era arrivato, accol to con grande ossequio, il vecchio Costantino Lazzari, l’in transigente supremo. Relativamente vecchio, non aveva sessant’anni, ma era dei primi capi del partito, perciò molto rispettato. 

Era stato del Partito Operaio, con Gnocchi Viani, Bignami e gli altri milanesi, che poi erano confluiti con Turati nel nuovo partito socialista. Lazzari era una strana mistura (molto fre quente tra i socialisti del tempo) di estremismo e di buonsen so. 

Ultramassimalista, però era attento all’unità del partito, gli dispiaceva sinceramente litigare con Turati e Prampolini; era  facile all’invettiva e alla lacrima, come temeva Mussolini. Era di indiscussa probità, di dignitosa povertà; non molto colto, non raffinato. Da sempre in direzione del partito, non aveva mai premuto per essere eletto deputato; lo diventerà molto tardi, alla vigilia del fascismo. Ma questa volta, era in odore di Segretario del partito. Disfatti i riformisti, ci voleva uno come lui, anziano e onesto, indiscutibile se non per l’intelligenza politica, per il passato. Fu lui ad aprire la riunione della corrente maggioritaria, la mattina prima del Congresso.  

Con al fianco, Lerda, Serrati, Maffi, Riboldi, e Vella e Ama deo Bordiga per i "giovani socialisti ". Mussolini era in prima fila. Molto ci si attendeva da lui: era la novità del Congresso.  Era già noto, ma non era ancora "consacrato", non era ancora dei capi, non alla presidenza. Però, già gli avevano dato la camera al Posta, ch’era un segno distintivo. La discussione verteva sul come cucinare i "destri ". Quasi tutti erano per espellerli. 

Lerda e Lazzari erano un poco più prudenti, paventavano i riflessi sul gruppo parlamentare, che era quasi tutto riformista, sia pure di sinistra o unitario. 

Parlò Graziadei, sul programma economico, del quale, per la verità, non importava niente a nessuno. L’importante era che fosse chiaro che non si andava al governo, che i socialisti non si facevano incantare dalla sirena Giolitti. Parlò il ravennate Bacci, l’altro candidato a nuovo direttore dell’Avanti!, ma era un ovvio; curioso che i candidati all’Avanti! fossero tutt’e due romagnoli. Ma c’era una bella differenza. 

Quando parlò Mussolini, il tono della riunione cambiò subito, come per incantesimo. 

Era l’unico che aveva chiaro non solo l’obbiettivo, ma anche le conseguenze. Lazzari aveva proposto di allontanare i rifor

misti, ma salvando un po’ la forma. "Tanto se ne vanno loro, hanno capito che non è più aria. Poi è vero che noi siamo maggioranza, ma non di tanto. 

Dai conti che abbiamo fatto, saremo un 13 mila noi e un 12 mila loro, non c’è tanta differenza. "Il partito contava infatti, tutto sommato, un 25–26 mila iscritti. Mussolini si alzò dalla sedia e si mise dalla parte della presidenza. Roteò gli occhi sulla sala e scosse il testone: "Naaa! Non cominciamo a far confusione. Bisogna metterli fuori, e malamente, in modo che la base non abbia dei dubbi. 

Non possiamo far prigionieri né lasciar feriti. Presenterò io la mozione. Ce l’ho già scritta. Innanzitutto bisogna dire al grup- po parlamentare quello che gli va detto. 

Perché non è vero che sono solo due o tre traditori! E’ tutta l’impostazione del gruppo in Parlamento, che non va, da anni. E’ lì che nascono gli equivoci: in quel Sinedrio!" (Applausi) "E’ lì l’ignavia, che demoralizza le masse! Altro che sciopero generale, il fallimento generale! Ma come volete che faccia la gente a scioperare, quando vede i suoi deputati che vanno a baciare il culo al re e alla Regina?

Quando leggo che almeno 13 deputati socialisti, e dico so-cia-li-sti, hanno votato nel segreto dell’urna per la guerra di Trippoli!" (Diceva proprio Trippoli, non perché non lo sapesse, ma perché era quella la sua oratoria) "Bisognerebbe cacciarli tutti, come i mercanti dal Tempio. Ma tutti non si può, figuriamoci. Qui a Reggio comincerebbero a piangere, per il Santone Camillo Prampolini; e a Milano per il grande Filippone Turati; e a Rovigo per il dottor Badaloni, medico dei poveri; e a Genova per il Sindaco Canepa, il papà dei portuali. Non è possibile, ma ci penseremo dopo. Intanto, se gli togliamo Bissolati e Bonomi è come togliergli gli artigli. Intendiamoci, questi non sono peggio degli altri. Ma, i coglio- ni, si sono pregiudicati; mentre Turati ha capito l’antifona e si è tirato in là, e Camillo, che era d’accordo con loro e stava per cascarci, si è dato malato.

Compagni: qui c’è un rovesciamento storico dalla situazione. Finisce un’era, quella dei riformisti, e se ne apre un’altra, la nostra. Quando Turati e la Signora Anna (risatine) se ne accorgeranno, sarà tardi!" Si faceva mezzogiorno, la tavola aspettava e tutti ci tenevano. Ma Mussolini si diresse a passo svelto verso un altro albergo, il Cavalletto. 

L’Albergo Cavalletto era meno importante del Posta; anzi era piuttosto squallido. Ma la Angelica Balabanof era atterrata lì, e da lì aveva inviato un urgente appello a Benito. "Moncherì. Sono ora arrivata al Cavalletto, albergo che non è all’altezza mia (e sì che sono piccola) né tua, ma tant’è. E’ questo che ci passa il convento socialista e che si trova in queste cittadùcole di provincia dei riformisti. Vienimi a prendere, andiamo a mangiare insieme in un ristorante che mi dicono buono e vicino, il Cannon d’Oro. Poi faremo qualcosa d’altro. Tua Angelica."

"Bè", pensava Benito, camminando veloce, ogni passo una battutina sul selciato con la zanetta. 

"L’Angelica non è un granché, ma insomma una ripassatina la merita sempre. Poi è intelligente, un’accidente di donna, una buona rèclame. Può darsi che mi ritorni utile. 

E poi, non sarà certo lei a farmi perdere il cervello sulla Luna, come a Orlando l’Angelica dell’Ariosto: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sì savio era stimato prima. 

"Eh,eh!" Aveva conosciuto l’Angelica in Svizzera, al tempo delle sue peregrinazioni giovanili. Lei era a Zurigo con Lenin e il suo gruppo di esuli russi. Era una delle abbastanza nume- rose ragazze russe, anarco-socialiste, "Narodnie i volya", emi- grate "sotto gli occhi dell’Occidente" (per dirla come Conrad) per non fare i conti con la polizia zarista; che passavano per Zurigo o per Parigi e poi venivano a scaldarsi al sole italiano; l’Angelica, la Kulisciof, la Vera Zazulic e le altre. Le era piaciuto quel maestrino italiano, che aveva conosciuto alla sua scuola di tedesco per gli emigranti italiani. 

Era nell’ultima fila, agitatissimo, trascurato, malvestito. Lo avvicinò e lui le disse: "Lasciatemi stare, sono un uomo finito! Sento di essermi preso una malattia contagiosa!" 

Lei lo mandò da un medico, che pare non gli trovasse niente di grave, forse un po’ di blenorragia, e allora si diedero alla 

pazza gioia. Qualche volta erano andati a ballare, sulle zattere in riva al lago, altre volte erano andati a letto. Un giorno erano andati insieme a Nyon, a vedere gli scavi archeologici della fortezza di Giulio Cesare e lei gli aveva letto due capitoli del "De bello gallico", perché diceva che leggere Giulio Cesare allarga la testa. Lei raccontava anche di averlo convinto a iscriversi al partito socialista, perché ancora era anarchico o sindacalrivoluzionario: vedi le donne cosa ti combinano. Poi si erano rivisti in Italia, lui l’aveva anche chiamata a parlare a Forlì. Gli tornava in mente una sera, a cena dagli amici Monti. Lei aveva ascoltato le sue lagnanze per la difficoltà di trovar soldi per "La Lotta di Classe". 

Si alzò in piedi e scuotendo la bellissima chioma (l’unica cosa bella che aveva, oltre agli occhi appassionati) disse con semplicità: "Tagliatemeli, vendeteli a un parrucchiere come offer ta al giornale di Mussolini. Varrà una buona somma!"

Mussolini e i Monti, naturalmente, si erano precipitati a dissuaderla; ma Benito non aveva mai dimenticato quel gesto. Non era bella, ma era di gran temperamento. 

Al tempo del Congresso di Reggio non era più giovane, aveva

quasi quarant’anni. Era piccolina, non c’è mai stata una socialista che abbia somigliato più di lei all’Edith Piaf. Veniva da una famiglia ricchissima, proprietaria terriera. Era una ribelle, non sopportava di vivere in Russia. Agli amici intimi ricordava, ogni tanto, la sua fuga da casa, a Cernikof, a Kiev, con la madre che l’inseguiva e le gridava: "Ebbene non sei tu che te ne vai! 

Sono io che ti caccio e che ti maledico!"

Una tragedia russa, alla Dostojewski. Ma poi la brava madre ucraina non le fece mai mancare un assegno, un vaglia postale al momento giusto, nell’esilio svizzero e anche dopo. 

Aveva conosciuto a Bruxelles il professor Antonio Labriola,

Gran Filosofo del socialismo scientifico; con lui s’era trasferi- ta a Napoli e per amor suo s’era iscritta al partito socialista italiano. Ma come tutti i professori, specie se napoletani, La briola era colto, accademico e supponente. A sentirlo, lui era l’unico marxista in Italia (e forse era anche vero) e gli altri erano analfabeti, politicanti impreparati, che si permettevano di fondare un partito socialista senza inchinarsi al suo alto parere. Insomma, era una piaga e lei lo aveva mollato, senza rimpianto: o era stato lui a lasciarla? Chissà.

E però prima di morire (ben sessant’anni dopo, era di ferro, se n’andò a 92 anni nel 1965)

Angelica chiese di essere sepolta nel cimitero degli inglesi a Roma,vicino al suo vecchio amico, il professor Antonio: vai a capire le donne. Insomma, l’incontro fra i due, Benito e l’Angelica, era stato di quelli che lasciano il segno. Soprattutto per lei, passionale come donna e come russa, due volte. Lei gli aveva indicato i libri, prima di Max Stirner e poi di Nietzche e 

infine di Marx, che lui assicurò sempre di aver letto. 

"Benoit", lo salutò lei, "e così siamo arrivati al redderatio- nem? 

Non l’avresti mai detto, eh, quella sera a Zurigo"."Oh, è ancora tutto da fare. Non basta metter fuori i riformisti. Bisogna impadronirsi del partito"."Che brutta parola, impa- dronirsi" lo rimproverò lei, infilando con la forchetta un tortello di zucca.

"Come son buoni, non li conoscevo", osservò. "E’ un’altra specialità reggiana, qui ci si ingrassa. Ma in genere di tutta la bassa, anche a Mantova e a Ferrara li fanno là, li chiamano cappellacci, l’informò lui. "Li farà anche tua moglie, immagi- no". "No, mia moglie è specialista in passatelli. 

E anche in strozzapreti. E’ romagnola, non emiliana".

"Io piuttosto che del partito, m’impadronirei dell’Avanti!", suggerì Angelica. "C’è meno concorrenza. Nel partito c’è chi teme di perdere il posto da deputato, chi da capocor- rente, chi da burocrate; mentre invece pochi sanno fare il giornalista come te". "Mi hanno detto che ci tiene Bacci ".

"Capirai, buono da poco. Beh, intanto tu entra in Direzione, che poi ci pensiamo. "Disse ancora: "Passiamo prima dal- l’albergo, che devo prendere delle cose". Ma si capiva che aveva una voglia da morire. All’albergo fu una cosa svelta, 

ma significativa, come sempre più per lei che per lui. Come sempre, lui era impulsivo, pronto, ma superficiale. Non ci metteva la testa e meno che mai il cuore. Qualche volta lei gli diceva: "Ma dimmi una volta che mi ami!" "Oh, che storie sentimentali! Che amore e amore! Ho altro da pensare, io!" 

Si vergognarono un po’, giù all’ingresso, quando i compagni li salutavano, riconoscendoli. "Dai Muslèn, che a g’la fomm!", disse uno dandogli una pacca sulla spalla. "Preparati bene e risparmiati, che son giornate dure!" disse allusivo.

Angelica Balabanoff Torquato Nanni