IL DIBATTITO 

 

Faceva proprio un bel vedere  il Politeama Ariosto, quel pomeriggio 7 luglio 1912, giovedì, quando il Sindaco di Reggio, Luigi  Roversi, dopo aver  pronunciato  il suo saluto a nome della città, aveva aperto il Congresso. Non era un grande oratore, il ragionier Luigi Roversi, non certo quanto era valido amministratore. Però se la cavò bene, con la Reggio Gentile, la Gerusalemme Socialista, la Pasqua dei Lavoratori, il telegramma del malazzato Prampolini da Vetriolo (suscitò molti applausi e qualche buu), la lista delle incredibili realizzazioni del socialismo reggiano, sulle quali c’era poco da mormorare, erano uniche in Italia. Poi la Banda Rossa, che aveva suonato tutto il suonabile: l’Inno dei Lavoratori di Filippo Turati (Su fratelli su compagne su venite in fitta schiera, sulla libera  bandiera splende il sol dell’avvenir!), che era l’inno del partito, ma ora più che altro l’inno dei riformisti; Bandiera Rossa, il più orecchiabile, meno bello ma più amato, lo cantavano anche i bambini  (Bandiera rossa la trionferà, evviva il soccialismo e la lib-ber-tà) e che era preferito dai massimalisti; l’Internazionale (L’Internazionaaaale - futura umanità!), 

che era quello dei rivoluzionari tosti.

Perfino qualche canto anarchico, di Pietro Gori (Addio Lu- gano bella - o dolce terra pia - cacciati senza colpa- gli ‘nar- chici van via), che i superstiti ex anarchici  intonavano piangendo, forse per il rimorso d’esser passati dalla parte di quei mezzi borghesi dei socialisti. E qualche pezzo d’opera di tipo socialistoide: “Va pensiero sull’ali doraaate”, ”Guerra guerra,  le galliche selve”, “Snuda la spada e intrepido io sfi derò la morte “e così via finché c’era fiato.

Si sgolava il coro del Teatro Municipale (bel coro), poi quello del Regio di Parma (ancora meglio) poi   tutto il pubblico fem minile dalle gallerie.

Nei palchetti di proscenio c’erano le signore, femministe o mogli o amiche dei capi. Alla Kulisciof avevano riser vato il palchetto di destra.

Era insieme alla Sarfatti, cronista d’arte e di teatro dell’A- vanti! Bella donna anche lei, giovane, di sinistra ma di buona famiglia ebraica, di Venezia.

“Qual’ è il Mussolini ?” chiese all’Anna.

“E’ lì sotto in prima fila, coi delegati della Romagna.”

“Non è male, credevo fosse il solito  rivoluzionario con la solita barbaccia ispida”.   

“E’ tutta scena e niente sostanza”, disse l’Anna. “Poi, cos’ha di bello, quella boccaccia, quegli occhi spiritati, quella barba non rasata”

“Beh, almeno è nuovo. Vorrei conoscerlo”.

“Bada che c’è già la Balabanof. Quella non ammette concorrenti, è una divoratrice”.

“Quello scricciolo? Uno sgorbietto. Guardala là, di fronte, ci vuol altro per fermare una come me”, sorrise maliziosa Margherita Sarfatti.

Dal palchetto di fronte, la Balabanof e la signora Serrati le stavano guardando col binocolino da teatro.

“Eh, eh”, arrotò i denti l’Angelica. Quelle streghe stanno parlando di noi, male naturalmente”. “Chi l’Anna? Ma l’An- na  è buona … “disse la Serrati, che per affinità  aveva anch’essa l’ingenuità del marito, Giacinto Menotti.

“Tsè, da bruciare. E’ una borghese, tutta cappelli e sciar- pette e scarpette.  

Ha distrutto l’Andrea Costa e ora sta mummificando il Filippone. La conosco, io; per far la bella vita poteva anche restare  in Russia”. 

“Ma mi dicono che a Milano la chiamano la Dottora dei poveri e che è un ottimo medico”, obbiettò la Serrati. 

“Sì, medico di Turati, vedrai che cura”.

“Ma lei è un po’ più a sinistra di lui”. “Mica ci vuol gran fatica a esser più a sinistra di Turati. Parliamo d’altro”. 

Il Segretario del partito, Pompeo Ciotti, tenne la “relazione morale”. In effetti, il segretario del partito allora contava rela- tivamente poco e poco contava la relazione detta “morale”, più che altro una relazione burocratica. Quelli che contavano erano i capicorrente e i parlamentari più noti o i direttori dell’Avanti! come Claudio Treves. Il Treves  era il fratello buono di Turati, più sapiente, scriveva benissimo, non era un trascinatore di folle, aveva un linguaggio un po’ ricercato, il classico intellettuale ebreo.  

Quando Treves attaccò la sua  relazione sul giornale, l’Avanti!, gli fu riservata la sua razione di fischi. Però sapeva come prendere i delegati, che qualche volta gli diressero il “Buuu!”, però lo rispettavano e lo lasciarono finire. Qualcuno disse perfino: “Che peccato che dobbiamo mandarlo via. 

E’ un  vile riformista, ma ci fa vendere il giornale” .   

L’onorevole Montemartini tenne la relazione del gruppo parlamentare. Qui cominciarono a cadere le tegole. L’ordine del giorno preparato da Mussolini partiva proprio dalla contestazione dell’operato del gruppo  parlamentare. 

Il voto a Luzzatti, le trattative in casa di Giolitti per l’ingresso del partito nel governo, il Bissolati che aveva partecipato alle consultazioni del Re:

“Questo ci devi raccontare, altro che balle! E quanti progetti di legge, e quante interrogazioni e quante mozioni, ma sai a noi che ce ne frega, tutte chiacchiere!”

“Buuu! Panciafichisti! Corrotti! Buoni a nulla!” Sembrava dovesse cadere il lampadario. Le quattro muse dipinte sopra il palcoscenico parevano guardare con stupore e paura la platea infiammata.

“Basta con l’ autonomia del gruppo parlamentare!”, gridarono i più avveduti. Questo davvero era un problema . Per statuto il gruppo della Camera era autonomo dalla direzione del partito. La fine di quell’ autonomia era richiesta nell’ordine del  giorno Mussolini; era un altro durissimo colpo contro i riformisti.

“Ci vuole la disciplina del partito, basta con le autonomie!”  

Ma la platea si rovesciò del tutto quando cominciò a parlare l’Angelica Balabanof.

S’era iscritta a parlare subito. Gliel’aveva ordinato Benito, dicendole: “Vai avanti tu che mi spiani la strada, poi arrivo io che li stendo tutti”.

Del resto le toccava, per tenere la relazione come delegata all’Internazionale e come donna in direzione del partito. In verità tra le donne contava molto più la Kulisciof, che era la capa delle femministe, le suffragette come si diceva perché  volevano il suffragio universale col voto per le donne; sul quale la Kulisciof aveva fatto una grande  battaglia, non abbastanza invero sostenuta da quei maschilisti del partito.

Quando vide la sala ben scaldata contro il povero Monte- martini, l’Angelica si precipitò dal Costantino Lazzari, che stava in quel momento presiedendo e gli intimò: “Bè, e allora, quando mi dai la parola? Ne abbiamo abbastanza di questi arzigogoli burocratici!”

Lazzari borbottò nella barba:

“Uffa, queste donne, che rompicoglioni!” Ma poi gridò: “La parola alla compagna Angelica Ba-la-ba-nof!”

Vedendo quel donnino minuto, che si avviava con fierezza alla tribuna,  battendo i tacchi sul palcoscenico, i fogli degli appunti nel pugno, la platea si levò applaudendo:

“Brava Angelicaaa! Sei un fenomenooo! Viva l’Internassio- nale, viva la Rivolussione sociale!”

“Compagni!”, cominciò. Ma alla tribuna, piccola com’era, non riusciva a  tenere la bocca sopra l’orlo del palchetto e le parole non si distinguevano bene.

“Metteteci uno sgabello sotto i piedi! Un pacco di giornali, buoni da niente della presidenza!”, gridavano i congressisti. Furono accontentati.

“Grazie, compagni”, riprese l’Angelica. “Qui si tratta di vedere se siamo ancora un partito marxista, sì o no?”

“Sìii!”, rispose in coro la platea. “E allora che ci fa, dico io, in un partito marxista uno come l’onorevole Podrecca, con il suo giornale l’Asino, che non si capisce se è più asino lui o il suo giornale?”

(Bene, bravaaa! Ostia che brava! Diccelo, dègghel bein!)

Alla presidenza Zibordi si chinò all’orecchio dell’amico Ro- versi, sussurrò: “Questa è matta, peggio del suo amico Benito. Qui finiamo in mano a  dei  matti”.

“Sì,” sussurrò Roversi . “Ma quell’imbecille di Podrecca pote- va fare a meno di scrivere quelle cacate sulla Libia!”

Intanto Angelica continuava imperterrita: “E Bissolati, Bonomi e Cabrini, cosa ci stanno a fare, i futuri ministri, adoratori della Monarchia! Mi dispiace dover cacciare degli uomini di prim’ordine, che hanno avuto dei meriti… Ma non devono imbrogliarci con quell’alibi, che hanno solidarizzato col Re per evitare la persecuzione poliziesca del partito… E’ così che l’on. Bissolati và a palazzo reale, ma non si mette in redingote e cilindro, da buon borghese, sibbene  la giacca di fustagno e il cappello a cencio, il demagogo! Questa è tutta la sua differenza con i nobili e i borghesi!”  

Discese tra un uragano di applausi. Passò dritta dritta davanti al palchetto della Kulisciof, che faceva finta di batter le mani per cortesia, clòppete clòppete. Al di là del “golfo mistico “, la cavea dell’orchestra che separava il palcoscenico  dal pubblico, fu accolta dai romagnoli  che la volevano sbranare, per amore naturalmente.

“Sei piccola, ma sei venuta su a bistecche di leone!”, gridò Galeotti.

“Andiamo a bere al caffè del teatro, qui fuori “, propose Tor quato Nanni. “Ti meriti una coppa di champagne, ma  qui non ce l’hanno. Prosecco ghiacciato per tutti!”, ordinò. “Dove sei, Muslèin, ma dove l’hai trovata questa qui?”

“Sìsì”, tagliò corto Benito “Tra poco andrò in albergo a preparare il mio discorso.” Il successo dell’Angelica gli faceva piacere, ma i troppi applausi lo avevano un po’ piccato: lui voleva tutto per sé.  

Il malcapitato Guido Podrecca aveva chiesto la parola “per fatto personale” “Ne ho diritto”, protestò”. Quella donna mi ha volgarmente insultato!”

Lazzari consultò Zibordi e poi gli diede la parola.  

Guido Podrecca era, più che un socialista, un anticlericale, come molti nel partito, del  resto. Certamente l’Angelica aveva ragione a non ritenerlo un marxista ortodosso: anzi, lui neanche ci pensava al marxismo. 

Sui quarantacinque, era un buon giornalista con una forte vena umoristica, satirica. Aveva fondato L’Asino, ch’era appunto un giornale satirico anticlericale, molto violento. In quel senso, poteva essere considerato molto a sinistra  e infatti alle masse piaceva. L’Asino aveva un sottotitolo: 'Il Popolo è come l'Asino, utile, paziente e bastonato'. Era una massima di Benjamin Constant. Il giornale aveva avuto, per quei tempi, un  grande successo di diffusione e il Podrecca era stato eletto deputato. Era anche un discreto oratore. Aveva la presenza fisica propria degli oratori di quei tempi, un po’ da sciamano; la barba nera, un profilo mefistofelico che sembrava fatto apposta per il suo ruolo di anticristo. Per tutte queste qualità era stato amato dall’uditorio, che però questa voltata lo prese a male parole:

“Tripolista! Forcaiolo! Guerrafondaio!”  

“ Non ho fatto altro”, cominciò, “che riprendere le idee del nostro profeta Antonio Labriola, il quale già nel lontano 1896 era a favore della guerra in Africa.”

“Non è vero!” scattò l’Angelica, che era tornata nel palchetto.

“Già, lei lo sa, era la sua amica! “gridarono i destri, ridendo. “Poi distinguiamo. Io sono contrario alle guerre europee, dei paesi civili. Ma in Africa, per portargli la civiltà a  quei negri,  la guerra è indispensabile!”  

“Uh, gli porti le forche non la guerra, guarda che roba che fanno i nostri generali!”, gridavano dalla platea.  

“Io mi rifiuto” smentì, commosso, “di credere che i soldati italiani si siano macchiati di simili infamie!”

“Eh, fai l’ingenuo, credi all’Asino che vola!”

Però il discorso, tutto sommato, fu detto e ascoltato abbastanza bene. Ma ciò non riuscì a salvarlo dalla ghigliot- tina. “La seduta è sciolta”, decretò Lazzari. “Domattina siete invitati tutti alla gita per Ciano d’Enza, con la grande ferrovia costruita dalla Cooperative! Scampagnata gratis!”

Quando uscirono dal teatro, Angelica era sottobraccio con Mussolini da una parte e Torquato Nanni dall’altra.

“Sapete”, disse con aria di mistero. “Lazzari ha chiesto a Salvemini se vuol fare il direttore dell’Avanti! Me l’ha detto Vella”.

“Ma come!” esclamò Benito, arrabbiatissimo. “Ma Salvemini se n’è appena andato dal partito! Non si può!”

“Lo  sapevo che quel pasticcione ne avrebbe fatta una delle sue! Non si può lasciarlo un minuto”, gridò Torquato agitando il pugno per aria. “Domani vado io a parlargli, approfitto della gita in treno”.

“Dice che non sanno a chi darlo, l’Avanti! Non hanno uno di prestigio per sostituire Treves”, disse ancora l’Angelica. “Dio Signore, quel meridionale rompiballe di Salvemini, che non si sa mai che cosa voglia!

Non hanno nessuno, eh?  Ma c’è qui Benito ch’è un grande e poi saresti meglio anche tu e poi sono meglio perfino io, che faccio un giornale da dieci anni! Che bisogno c’è di Salvemini?”

“Quel professore”, disse Mussolini, con sprezzo. “Un pro- fessore nel senso peggiore della parola, capace solo di pontificare, mai di un’azione diretta!”

“Beh, entriamo qui al Caffè Italia, offritemi un aperitivo” concluse Angelica. Il Caffè Italia, sotto il portico della Trinità, era un antico caffè molto chic, con mobili restaurazione  e neoclassici,  persino qualche consolle Impero. “Veh, che bei bigliardi! Facciamoci un cinquantuno a stecca!” propose Nanni.

“Alla goriziana”, suggerì Benito.

“No, all’italiana, si fa prima” , precisò Torquato.  

“Fate quel che vi pare, ma non dei sette sul tappeto, che ce li fan  pagare un occhio e rimaniamo senza soldi per il ritorno”, si preoccupò Angelica, che li conosceva bene, scucchiaiando una coppetta di  gelato. 

   

Guido Podrecca (direttore L'Asino)

Claudio Treves (direttore Avanti!)