BENITO E RACHELE  

 

 

Benito si chiamava esattamente Benito, Andrea, Amilcare. Benito come Juarez, Andrea come Costa, Amilcare come Cipriani, il grande rivoluzionario  garibaldino, popolarissimo in Romagna. I nomi glieli aveva assegnati il padre, Alessandro, anarchico e fabbro, marito della signora maestra Rosa Malto- ni.

Dalla casa di Predappio aveva già fatto abbastanza strada, ma infine era ancora a Forlì, dove era ritornato dalla Svizzera e da Trento, e dove  si sentiva bene ma stretto.

“Benito”, sorrise Rachele alzandosi, “anche la mattina, adesso…”

“Vèh”, consentì Benito, “oggi parto per Reggio e starò via una settimana.”  

“Già, e intanto mi metti incinta un’altra volta. Abbiamo appena fatto l’Edda.”

“Uno o due non fa una gran differenza”.  

“Per te, che non sei mai a casa. Per me sì. Dobbiamo ancora mettere a posto l’appartamento; sei appena uscito di prigione, e tra un po’ ti ci metteranno ancora, se non la smetti con  le tue storie esagerate.  

“Dài, che forse a Reggio cambierà qualcosa, lo sento. Sto diventando importante.”

“Sé, i soliti congressi dei socialisti. Brava gente, interessante, ma mai niente di nuovo.”

“Stavolta vinciamo noi, cioè io. Con le mie “storie esagerate”, come dici tu.

Con le mie storie e le mie prigioni sono diventato l’uomo più popolare del partito. Stavolta mi daranno ragione.”

“Voglio proprio vedere, a voi  vdè. Capirai, col Turati e col Prampolini, che fa il Congresso in casa sua”.

“Già”, disse soprappensiero Benito. “Non ci sarà. Prampolini non ci sarà.  

Lui dice che va in Trentino perché ha l’esaurimento nervoso, ma secondo me ci va per paura. Un po’ perché ha paura di prenderle, hanno perduto troppo nei congressi provinciali, i riformisti; un po’ perché non vuole schierarsi: è troppo amico di Bissolati e di Bonomi, non vuole litigare con loro

Rachele: “Un po’ di soldi li hai presi? Avrai da pagare qualche cena agli amici. Due o tre libri: sì, quel libro di citazioni. Si’, Sorel. Gran chiacchierone, lui e lo sciopero generale. Si fa poca strada, col Sorel”.

Lui sorrise a mezza bocca: “Lascia fare a me. Lasciami dire. Glielo racconto io, il Sorel, glielo faccio capire a que- gl’ignoranti. Vedrai che applausi.  

“Già, mi piacerebbe esserci… Ma l’Edda, i soldi…

“Ci sarai  la prossima volta, magari a Milano o a Roma, te lo prometto”.

La Rachele Guidi era ancora una bella giovane. Non fatale, non affascinante, ma insomma una discreta  donna, formosa e soda; anche di carattere e di buonsenso.  

Lei diceva che il buonsenso lo aveva perso una sola volta, per Benito. Quando lui si era presentato a suo padre, nella trattoria a “conduzione familiare”, dove il padre era l’oste e lei serviva a tavola.

“Guidi”, aveva detto Benito, estraendo dalla tasca una pistola. “O mi fate sposare la Rachele, o mi faccio saltare le cervella qui all’istante. Il Guidi non lo prese molto sul serio, però sapeva che  Mussolini era piuttosto matto e non volle prenderlo di punta.  

“Ma siete diventato finalmente maestro di ruolo?, s’informò.

“Proprio quest’anno, rispose Benito. “Sono ritornato ap- posta.”

Aveva fatto un lungo giro, in Svizzera, a Trento con l’on. Cesare Battisti, deputato socialista al Parlamento austriaco. Non era ritornato esattamente per la Rachele, ma insomma c’entrava anche lei.

Lei ascoltava dietro la porta della cucina, con la sua povera mamma. 

Fu proprio contenta quando il padre concluse:

“E va bene, ne parleremo la prossima estate

Ora, Mussolini chissà perché rivide l’episodio come in un lampo: 

la baciò ed estrasse l’orologio dal taschino.  

“E’ tardi”, osservò. “Com’è che non viene il Nanni?”  

Il Nanni era Torquato Nanni, sindaco di Santa Sofia, suo grande amico. Era un avvocato, socialista ma soprattutto anticlericale, e in fama di massone. Aveva un suo giornaletto, “La Scopa”, molto seguito sulla montagna romagnola; seguito, relativamente ai tempi, sette-ottocento anche mille copie, intellettuali di provincia, artigiani e operai di buona volontà. La tipografia era sua, e non andava male; poi era una grande risorsa, per i manifesti,  i volantini, gli inviti. I tipografi erano i suoi attivisti. Insomma, era un bel centro elettorale.

Nanni aveva proposto a Benito di stamparci anche “La Lotta di Classe, il settimanale di Forlì. Ma Mussolini, amicizia o no, voleva essere indipendente, comandare a casa sua.

“Ci penserò”, aveva detto. 

Ma ecco che Nanni era arrivato al portone, fischiava. I due amici, la valigia in una mano, il bastone (la zanetta di bambù) nell’altra, il rispettivo giornale (La Scopa, La Lotta di Classe) in tasca bene in vista, il cappello a falde larghe in testa, la cravatta a farfalla nera al collo, si avviarono verso la Piazza di San Mercuriale, il centro di Forlì.  

Anche a distanza, sembravano il prototipo del socialista stile 1910–1920 .

Erano quasi come in divisa, tra il militare e il college. Allora i militanti dei partiti si distinguevano anche per la moda. Per esempio, i socialisti portavano il cappello e il foulard alla  Lavallière, gli anarchici il berretto e la cravatta nera a due palline; i liberali il cappello “rollè”, il paltò con il colletto di astrakan.   

I due non erano alti, semmai il baricentro tirava al basso. 

Nanni era decisamente il più bello dei due e anche il più elegante.

Portava una bella barba corta e riccioluta, aveva  begli occhi ridenti, piaceva alle donne. Mussolini  tendeva al bel tenebro so, con l’aria da cospiratore; gli occhi infossati, nevrotici, i baffi non folti, un po’ di calvizie incipiente, stempiato in- somma. 

Anche lui piaceva alle donne, ma tirava via più velocemente. Era più interessato al potere, narcisista, egocentrico. 

Erano stati ambedue in prigione, Mussolini di più. In com- pagnia di un altro giovane amico, ma repubblicano, Pietro Nenni; anche lui giornalista e oratore. Tutti e tre erano contro la guerra libica e contro Giolitti. E contro il Re. 

Quando c’era stato l’attentato del D’Alba contro Vittorietto, non avevano esultato, ma neanche solidarizzato. Tutt’e tre, sui loro giornaletti, avevano scritto: “Un incidente del mestiere. Ch’era abbastanza vero, ma un po’ cinico.  

In piazza, passarono sotto la colonna con in cima la Madonna del Fuoco:

“Vè”, notò Nanni, “c’è ancora la Madonna. Non è ancora venuta giù.  

Ridevano, tutt’e due ricordavano il “contradditorio in piazza con Don Rimoldi; “l’argomento principe di Benito, che poi non era neanche suo perché da tempo usava, era roba alla francese .

“Se Dio c’è” aveva recitato Benito sul palco “che mi fulmini, lo sfido! 

Gli do tre minuti di tempo. E con l’orologio in mano,

“Uno… Due… Duemmezzo… Tre!”  

Il fulmine non era venuto e la folla aveva applaudito. Ma subito dopo, il cielo era imbronciato, era venuto un lungo tuono. E Don Rimoldi aveva gridato, dalla porta di San Mercuriale:

“Ecco, la voce di Dio! Non c’è  il fulmine perché il Signore è buono, anche con dei miscredenti come voi, ma la sua condanna c’è eccome, l’avete sentito!” 

I due compagni arrivarono alla sede della Lotta di classe ch’era anche la sede del partito a Forlì. Rilevarono Galeotti, un altro delegato; quelli di Rimini, di Cesena, di Ravenna, e poi di Faenza e di Imola, li avrebbero trovati sul treno. La saletta della redazione era piena di compagni. 

“Muslèn, ritorna vincitor!”, gridò l’unico redattore del gior- nale.

“Dategliele a quei riformisti!” 

“Risparmiate e chiavate poco!”, gridò un altro tra le risate generali.  

“Non c’è bisogno di dirglielo, “commentò uno scettico, scuotendo la testa. “Tanto le donne a Reggio sono più o meno come qua, un po’ meno more”.

“Salutateci Lazzari e fischiate Turati!”, dissero ancora.

“Non temete”, disse Mussolini. “Li sbaraglieremo. E se non basta li espelleremo anche!” Applausi.  

“Il partito”, continuò, “dev’essere come un maglio. Deve abbattersi sulla borghesia  pantofolaia e sulla reazione guerrafondaia.

A Tripoli ci manderemo Giolitti e i riformisti!” Grandi appla- usi. 

“Ci manderemo Podrecca, e non per nave ma sul suo “Asino!”, “a nuoto!” Risate. “E poi faremo qualche conto interno anche a noi massimalisti e intransigenti. Quel Lerda, per esempio, troppo debole: va bene nella sua libreria a Ge- nova, al sole della riviera ligure! Ma a dirigere il partito ci vogliono i rivoluzionari, e soprattutto i giovani!” Bene, bravo: avanti i giovani, largo ai giovani.

“L’gà rason”, disse il redattore al suo vicino. “Lui ha ventinove anni, neanche trenta, così va bene. Ma fino a quando deve aspettare, con quelle vecchie barbe: sono ven- t’anni che stanno alla Camera e non hanno combinato niente”. 

Era questo d’altronde l’ordine dei ragionamenti, le parole d’ordine che si erano udite per tutto il partito, nei congressi delle federazioni, nelle assem- blee delle sezioni, un po’ dappertutto. Specie al Sud, ma anche al Centro e anche al Nord, tranne Milano, Genova, per l’appunto Reggio e Modena e poco d’altro. 

I riformisti avevano tenuto le redini del partito nei primi vent’anni, dal 1892 al 1911, al Congresso di Modena. Adesso basta, era ora di cambiare.  

Forse potevano ancora andare per il Parlamento, dove ci voleva più misura, più stile; forse erano utili per le Cooperative, dove occorrevano soldi, lavoro e pazienza. Ma nel partito no e tantomeno nel sindacato. 

Lì ci voleva gente che parlasse al cuore delle masse: la disoccupazione, la guerra! Quelli erano i temi. E lì andavano bene Mussolini, Lazzari, Serrati, Vella, mica quei professori borghesi, quei giornalisti delicati alla Bissolati, Zibor di, Treves, quei medici alla Badaloni, che roba.

Gli amici si mossero, con robusto seguito, verso la stazione. Dal marcia- piede, i compagni allungarono le valige ai delegati.

Quando partirono, furono salutati al canto della marcia trionfale dell’Aida: “Tran tran, taratantantantan, taratanteero, taranteero, trallalà...”  

Alla stazione di Faenza, salirono i ravennati, con Baldini in testa. 

Ancora un anno prima sarebbero stati salutati come eroi; tra parentesi, lo erano. Con le cooperative avevano preso l’appalto delle Bonifiche Pontine, erano andati giù al Maccarese, a Ostia,  ad Anzio con le carriole, s’erano presi la malaria e un mucchio c’erano rimasti sottoterra, ma tanti. Adesso erano guardati male, come riformisti. 

“Che ci siete andati a fare”, dicevano con lo sguardo i massimalisti. “Dovevate lasciarci andare i borghesi, che s’ar- rangino.

V’hanno dato la terra? No. E allora?” Era vero relativamente, molti l’avevano avuta, grassi poderi. Ma molti non l’avevano voluta, erano braccianti e basta, la cooperativa s’era arricchita e ora prendeva altri ap- palti, altra bonifica in Romagna.

A Imola salirono Marabini e Graziadei, eredi di Andrea Costa. Costa ormai era vecchio, ai congressi socialisti non ci andava neanche più.

Anche perché s’era un po’ suonato anzitempo; e forse soprattutto perché non era più lui il Capo, faceva il Vicepre- sidente della Camera ma non contava più molto. Sembravano passati da un secolo i tempi della “Lettera agli amici di Romagna”, dell’addio agli anarchici, della rivoluzione di Borgo Pani gale, del Diavolo a Pontelungo, del Partito Socia- lista Rivoluzionario Romagnolo, il primo della serie. Era stato un  bel personaggio, e il primo amore di Anna Kulisci- of appena arriva ta dalla Russia; bellissima, i maligni dice- vano che lei gli aveva attaccato la mania della droga  e con quella e l’amore lo aveva cotto. 

Ora c’erano i Marabini e il professor Graziadei; sapevano tutto di economia. E cominciavano a chiamarsi col curioso nome di “comunisti”, per dire che loro erano integralisti rivoluzionari, non dei mezzi e mezzi come i massimalisti. Con loro cominciava la teoria, che non c’era una sinistra ab- bastanza a sinistra che non avesse un’altra sinistra più a sinistra.  

A Bologna salì invece una piccola ondata di riformisti. C’era il Sindaco Zanardi, c’era l’avvocato Genuzio Bentini, in gran forma da deputato rieletto, e c’era il Massarenti Giuseppe, l’Apostolo di Molinella.

Massarenti era il farmacista di Molinella. Era il prototipo dell’apostolo socialista dell’epoca. Era riformista, ma a modo suo. Più che altro era un concreto, un realizzatore: una specie di Prampolini, a dimensione comunale. Aveva coope- rativizzato tutto, la terra, la scuola, l’asilo, la  farmacia, il Comune di cui era Sindaco. Non aveva mai voluto essere deputato, perché non gli importava: il suo paese era la sua dimensione, la bonifica delle valli il suo orizzonte. Era adora- to dai braccianti e soprattutto dalle braccianti, che non lo tradiranno mai.

Come  molti socialisti dell’epoca (Turati, Prampolini) era un nevrotico; finirà al manicomio, un po’ per colpa e un po’ per pietà di Mussolini, che non voleva lasciarlo morire di fame, sulla strada a Roma. 

Ma quando saliva sul treno quell’inverno 1912, non poteva saperlo.

Né lo sapeva Mussolini. 

“Tsè, Massarenti”, disse rivolto a Graziadei , “la Repubblica degli Straccioni, la Corte dei Miracoli. Ecco il primo esemplare del socialismo dei frati laici; quel metodo è buono, ma per prendere tutta Bologna gli ci vorranno cinquant’anni. Ci vuol altro!”

“Già”, convenne Graziadei. “Le cooperative van bene, ma in un quadro statale. Così, d’impulso, qua e là, a Molinella e a Ravenna sì, a Palermo no, quando la borghesia vorrà o le strozzerà con le banche o le spazzerà via con la forza delle armi; non c’è niente da fare, è utopia”.

I romagnoli si consolarono con i “cestini da viaggio”, che cominciavano a vedersi nelle grandi stazioni ferroviarie. 

Quella di Bologna era famosa per i cestini di un certo Casali, che ci farà su un gran ristorante a Cesena. Nel cestino di cartone  c’erano  la coscia di pollo, le patatine fritte, una bottiglietta di lambrusco, ma soprattutto le lasagne verdi.

“Ostia che lasagne”, disse Torquato Nanni, contento come una Pasqua.

“Senti qua come profumano. Ne vuoi ?”, offrì a Mussolini. 

“No, in viaggio mi fan bruciare lo stomaco”, rifiutò Benito che cominciava a soffrire della gastrite che  lo porterà all’ulcera ma non alla tomba.

A Modena salì Gregorio Agnini, un altro papa del riformismo. Proprio a Modena, al congresso dell’anno prima, il riformismo aveva subito una grave sconfitta. Ma Benito quella volta non c’era: era in prigione a Forlì, col suo amico  Pietro Nenni, e proprio per il quarantotto che avevano fatto contro la guerra di Libia. Ora si trattava di approfondire, perfezionare, rendere irrimediabile quella sconfitta: la direzione riformista si era salvata per il rotto della cuffia, ora si trattava di detronizzarla definitivamente. La stazione della Mecca del Socialismo era imbandierata come si conviene: bandiere rosse e persino qualche tricolore, concessione da socialisti forti. I reggiani facevano le cose in grande, e avevano noleggiato persino una banda, che sotto la pensilina suonava inni socialisti e canzoni regionali, a seconda dei treni. Avevano degli emissari sui convogli, che correvano ad avvertire: “Arriva Enrico Ferri! Arriva Serrati! Arriva Mussolini!”  

Il capobanda non aveva simpatia per nessuno di questi massimalisti, ma doveva adattarsi. 

Per Arturo Labriola suonò, dopo Bandiera Rossa, O sole mio; per Serrati, la Bela Gigogin; per i romagnoli, Bela bur- dèla fresca e campagnola, dagli occ e dai cavei com e’ carbon.

Mussolini apprezzò soddisfatto, poi disse rivolto ai suoi:

“Glieli faremo noi, gli occ com e’ carbon!”

 

Mussolini giovane

Rachele Guidi, ragazza