CAMILLO E GIOVANNI

 

 

Due giorni prima era partito da Reggio, in direzione Nord, anzi Nord-Est, l’on. Camillo Prampolini. Prendeva il treno per un lungo viaggio, fino a Trento e da Trento su in corriera per Levico e Vetriolo. Le acque, le acque miracolose che ria- ppacificavano i nervi.

L’aveva accompagnato al treno il compagno d’elezione, il prof. Giovanni Zibordi. Prampolini gli aveva dato tutto: il giornale, il quotidiano “la Giustizia”, piccolo e modesto ma ben fatto e a cui teneva tanto; la federazione  e tra poco il già promesso collegio elettorale. 

Come spesso accade, i due amici erano molto diversi fisica- mente.

Camillo era una figura ascetica, asciutta, aristocratica. Portava una bella barba che cominciava a imbiancare, non si notava molto perché tirava al biondo. 

Aveva una lontana somiglianza con la figura del Cristo, come rappresentato dai pittori di chiesa; e bisogna dire che questo, inizialmente, gli aveva giovato: per i suoi discorsi ai contadini, per le sue prediche davanti alle chiese.

I parroci facevano suonare le campane per disturbarlo, ma questo non faceva altro che spingere i contadini a farsi più sotto al piccolo palco. E lui la raccontava, così bene; le sue similitudini, le sue parabole, insomma il suo vangelo. La “Predica di Natale”.  E che non bisognava odiare i signori, ma sfilargli con delicatezza il portafoglio, convincerli che l’amore e l’accordo erano meglio. E la giusta mercede per i lavoratori e il pane bianco per i loro figli, basta con la polenta che faceva venir la pellagra. E la paga anche alle donne che lavoravano nei campi di fianco al marito; e anche il voto. (Ma vah, il voto alle donne, che sciocchezza!) E il suffragio universale, e la scuola per i figli del popolo. E andate pure a Messa, ma ricordate che Gesù era stato il primo socialista .

A modo suo, aveva un coraggio da leone. Veniva da una famiglia distinta, aveva fatto l’Università di  Giurisprudenza, nientemeno che a Roma. (A Roma? Esagerato. Perché, Bolo- gna non gli bastava? Fino a Roma, città dei preti dove nessuno fa niente) Ma poi gli era presa questa strana vocazione, di predicare per i poveri. In altri tempi sarebbe stato un San Francesco, saimai, o in altri paesi una specie di Budda. Insomma, aveva la tempra del profeta.

S’era messo con gli anarchici , aveva cominciato a scrivere su  “Lo Scamiciato”. (Descamisado? O Madonna, lui così elegan- tino) Suo padre, ragioniere capo del Comune, lo aveva richia- mato:

“Mi dicono che tu scrivi su quel giornale di... Ma come fai?”

“Non temere, ne timueris, papà. Se ci scrivo io, vuol di- re ch’è un giornale perbene. “Così aveva risposto.

Poi aveva fondato “La Giustizia”, con l’aiuto dell’on. Maffei e di qualche giovane amico ricco: allora i giornali costavano poco. Il sottotitolo era: “La difesa degli sfruttati”. E a fianco della testata, c’era una manchette che era una massima di filosofia politica: 

“La miseria nasce non dalla malvagità dei capitalisti , ma dalla cattiva organizzazione della società, dalla proprietà privata; perciò noi predichiamo non l’odio alle  persone o alla classe dei ricchi, ma la urgente necessità di una riforma sociale che alla base dell’umano consorzio ponga la proprietà collettiva”. 

Queste parole possono considerarsi il primo manifesto “riformista” in Italia. E così Prampolini era stato tra i fondatori del partito, nel 1892: anzi era stato decisivo. Gli anarchici (Gori, Malatesta, Cafiero, Merlino) insistevano con le loro ubbie. Allora Prampolini di scatto si alzò e disse: "Basta! tra noi e voi non c'è più niente in comune! Lasciateci in pace, lasciateci fare la nostra strada!" Per l'agitazione, svenne. Allora i socialisti uscirono dall'aula, si riunirono nella Sala dei Carabinieri genovesi. (I Carabinieri dei mille, per intenderci). E il Ferragosto 1892 diedero vita al partito.  

poi vennero infiniti altri riformismi, ma sono un’altra cosa.

Il giorno in cui Prampolini si trovava a discutere con l’amico Zibordi al bar della Stazione ferroviaria, in attesa del treno, erano esattamente ventidue anni ch’era deputato, essendo stato eletto la prima volta nel 1890; dopo Andrea Costa, era il primo deputato socialista, prima di Turati, di Bissolati, di Ferri e di tutti gli altri. Nessuno aveva mai tentato di detronizzarlo, all’interno del partito: era troppo popolare. Era lui, semmai, che regalava i collegi di Reggio ai candidati di fuori. 

Aveva avuto due grandi amori, non fortunati. La madre, morta giovane, molto bella e molto somigliante, che gli aveva lasciato in eredità lo stile e la nevrosi; e una compagna, non sposata, Giulia, che gli aveva lasciato una figlia (Pierina)  e che era morta, bella e giovanissima, dieci anni prima. 

Dopo di allora, dicevano i discepoli  che non avesse più avuto donne: ma chi lo sa. A Reggio pareva strano, però ciò si addiceva al suo temperamento sacerdotale.  

Giovanni Zibordi, che discuteva animatamente ma a bassa voce con lui, era un mantovano, barbuto e ben portante. Non pareva, sembrava piuttosto un agrario o un fattore “da li beli braghi bianchi ”, ma era un grosso intellettuale.

Giosuè Carducci avrebbe voluto averlo con sé per la carriera universitaria a Bologna: ma dopo un paio d’anni da assistente, Zibordi si era stufato ed era tornato a Mantova. Del resto, non era facile sopportare Carducci.

Lavorava nel giornale di Mantova, scriveva bene, da carducciano classico ma un po’ retorico, in perfetto italiano. Era diventato un militante socialista, era un buon oratore. Quando Prampolini gli chiese di andarlo ad aiutare alla Giustizia, si precipitò e in breve diventò direttore e alterego politico di Prampolini. 

Questi ne aveva troppe da fare: e il Parlamento e il giornale e

le cooperative e il consiglio comunale e la direzione del PSI e addirittura, il Presidente della Cassa di Risparmio di Reggio, che già allora era una cassaforte piena di soldi. Basta. Trovò in Zibordi il braccio destro al quale lasciò la politica locale e anche molta di quella nazionale.

Cominciava a sentirsi vecchio e poi quest’ultima storia della lotta fra massimalisti e riformisti e della probabile scissione lo aveva stremato.

Poi c’era caldo, a Reggio di luglio, e lui non lo sopportava, dava in smanie. Aveva vinto il suo congresso a Reggio, ma per la prima volta c’era stato da discutere.  

“No”, affermò  picchiando sul marciapiede con la punta ferrata del bastone. “non voglio assistere a questo spettaco lo”.

“Non solo il partito è diviso in due, ma noi riformisti siamo addirittura divisi in tre: i turatiani, i destri e i modigliani nel mezzo. Figurati come andrà a finire”, disse sconsolato Zibor- di. “Io non so ancora come voterò.

Molti dei nostri hanno votato il documento Reina: D’Arago- na, Faraboli, Soglia, Nico Gasparini, Bellelli, Vergnanini. Sono quasi tutti i deputati prampoliniani. Lo chiamano il documento dei “sinistri”, i sinistri riformisti per distinguersi dai destri, roba da morir dal ridere. 

Li capisco, poveretti: con l’aria che tira nelle sezioni, c’è da farsi linciare a dire che si è amici dei destri. Ma insomma, è un documento di viva deplorazione, ma non di espulsione. Ma ora pare che Modigliani ne presenterà uno che li dichiara “postisi fuori dal partito”, cioè se ne vanno automaticamente da soli, che se non è zuppa è pan bagnato con l’espulsione. Forse voterò per i sinistri, poi mi taglierò la mano”.

“Che teste! Non bastava votare una mozione contro la guerra di Libia , e una condanna  per la visita al Re? Che bisogno c’è di espellerli; anzi, sarà un bel guaio quando se ne andranno via”.  

“Ti ricordi quando mi  dicesti che ci saresti andato anche tu, al Quirinale? E che io ti sconsigliai, non è aria Camillo, qui ci buttano fuori!”.

“Ma era un moto dell’animo! Bella roba se avessero ammaz- zato un altro Re, dieci anni dopo suo padre. Bella figura da selvaggi. E che reazione si sarebbe scatenata: un salto indietro di dieci anni. Per fortuna che Vittorietto è furbo, non è casca to nella provocazione, si è mantenuto freddo”.

“Già, ma queste cose non le possiamo dire. C’è Mussolini col trombone carico e tutti quegli altri mammalucchi dietro. Ci mancava anche Mussolini”.  

“Beh”, commentò Camillo. “Non sarà né il primo né l’ultimo dei rivoluzionari da strapazzo. Ne abbiamo visti tanti di questi matti, ti ricordi Pietro Gori e Malatesta e Cafiero? Passerà anche lui. Guarda ora Saverio Merlino, che è diventato più riformista di noi, chi l’avrebbe detto”.  

“Mah, Mussolini non è di quel genere. E’ un finto matto, è un furbo, non è un idealista. Quelli erano sinceri e buoni. Questo è un filone, t’al deg me, te lo dico io. E’ ateo ma può andare anche coi preti, se votano per lui. E’ repubblicano, ma non dà poi grande importanza alla questione, per questo ha litigato col suo amico Nenni.   

A me sembra un tipo più simile a Lenin. Sai, di quei russi con lo sguardo obliquo, grandi teorici  e grandi tattici. Cominciano a essercene anche da noi, non si capisce bene dove vadano a parare.”

“E’ meglio che me ne vada.”, ripeté Prampolini.  Non si può votare quella roba. Ma non mi sento neanche dalla parte dei destri. Riformisti sì, ma questi sono dei borghesi. Soprattutto per la guerra. La Patria, i Turchi, ma quando mai? Arma la prora e salpa verso il mare, come D’Annunzio. La Grande Proletaria si è mossa, come Pascoli.  

Gliel’ho detto e gliel’ho scritto: “Il fine non giustifica i mezzi. 

No, no; ogni guerra che non sia di estrema difesa, ogni guerra di conquista, è infame. Gli argomenti che si adducono per convertire la Tripolitania in una colonia italiana  non ci persuadono, sono un cumulo di assurdi, di  illusioni pazzes- che… Ciapalè, lo Scatolone di sabbia, se ne accorgeranno…

E poi quel Bonomi, Ivanoe, con le sue nuove vie del socialismo, un libro copiato da quel tedesco ebreo, Bernstein. Che nuove, vecchie come il cucco, come la Befana.

Noi siamo sempre stati democratici, ma socialisti... E marxisti. Il socialismo è il passaggio dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, alla proprietà pubblica. Se non c’è questo non c’è il socialismo, altro che.

Comunque ho paura che dopo vent’anni di progressi , cominci il disfacimento. Anche in politica, c’è un principio e una fine. Noi siamo il principio e loro sono la fine”.

“Ma non è così. Guarda in Germania, in Francia, in Inghilter- ra: siamo in maggioranza nei parlamenti, siamo nei governi… Perché in Italia no?”, obbiettava Zibordi.

“Bè”, pensò e disse Prampolini. “L’Italia è il paese dei preti, è il paese del compromesso, e poi è il paese dei furbacchioni, come il compagno Mussolini. Non c’è mai niente di definito e di serio. Guarda anche i liberali. Abbiamo votato per Luzzatti, che è meglio di Giolitti e molto  meglio di Sonnino. 

Però un vero partito liberale non c’è mai stato, come c’è in Inghilterra, in Francia, in Germania. Ci sono i notabili, gli uomini del governo, come spiega il compagno Salvemini. Un altro che capisce tutto, pontifica sempre ma non combina  niente, tra parentesi. Adesso poi ci sono i cattolici, Gentiloni e quel Conte di  Ravenna  dell’Azione Cattolica, come si

chiama...” “Grosoli”, l’aiutò Zibordi.

“Sì. E allearsi per noi è complicato. Poi abbiamo un partito difficile, gente intelligente ma difficile. Tutti sono capi e capetti, tutti comandano e nessuno obbedisce. Ci vuole qualcuno che metta tutti in fila. Turati, io e te, siamo troppo buoni, specialmente Turati, troppo beneducati.

Eh, eh “ ridacchiò.” Forse un giorno non lontano ci penserà quel Mussolini, chissà, le vie del Signore sono infinite”.

Il treno fischiò. Veniva da Parma ; fece la curva e imboccò la stazione. Poi a Modena sarebbe svoltato su per Verona e per Trento.

“Quanta strada”, pensò Camillo. “Stasera dormirò a Trento e domani su in  corriera”.

“Sì, era meglio se restavi a Reggio”, lo rimproverò Zibordi.

“Fa buona guardia” l’abbracciò Prampolini”. “In ogni caso, non votate per nessuna scissione o espulsione”.

“Speriamo che passi l’esaurimento, mio e del partito”. 

S’arrampicò in vettura, l’amico gli porse la valigia. 

Il Capostazione, col cappellone rosso, fischiò e il “diretto”  partì.

Camillo Prampolini

Zibordi e Prampolini