L'ULTIMA CENA

 

Alla Campana, trattoria storica, si riunirono la sera  molti dei riformisti di sinistra invitati dai reggiani. La Campana era proprio sotto la grande torre ottagonale  della chiesa di San Prospero, protettore della città. Anche il nome del santo protettore, i reggiani se l’erano scelto bene augurale e ottimi- sta, com’era nella loro natura.

La grande torre campanaria era molto particolare, perché era tutta ottagonale, dalla base fino alla cella delle campane. Le quali avevano un bel suono pieno, ridondante, tipico dei bronzi creati a Castelnuovo Monti, paesone della montagna, famoso per le fabbriche di campane e per  la Pietra di Bis- mantova: “Salsi di Bismantova in cacume con esso i piè,” come aveva scritto Dante e possiamo immaginare come “il cacume” veniva tradotto in dialetto dai vecchi reggiani.

L’antico campanile sembrava una torre bizantina, ma non lo era, era alto-medievale, l’avevano copiata da Ravenna, chis- sà. Nel Medio Evo era adatta anche come torre di difesa. Sotto c’erano i quattro grandi  leoni di marmo rosso, certa- mente cavati da qualche tempio o monumento romano. L’ultimo leone a sinistra guardava proprio verso la trattoria, a pochi metri, sembrava che avesse fame, con quelle fauci aperte. 

I riformisti “sinistri” entravano alla spicciolata e prima di tutto si sedevano a tavola.“Sinistro a me”, disse l’on. Bellelli “non me l’aveva mai detto nessuno,  sono un sindacalista serio, io”. 

“Beh”, disse l’on. Vergnanini guardando l’orologio. “Do- mattina devo per forza presenziare alla gita col treno delle cooperative. Sono il presidente, io, mica posso stare a letto”. 

“Guarda cosa ci tocca fare, espellere i nostri compagni,” disse l’Amilcare Storchi, sgranocchiando un cicciolo.

“Te, onorevole Amilcare, non rubare i ciccioli prima di cena”, rise l’on. Berenini. “Mi dispiacerà se quando m’avrete espulso non ci troveremo più a tavola”.  Berenini era professore di diritto penale ed era stato Rettore dell’Università di Parma.

“Te non ti spelliamo”, lo consolò l’on. Bertesi di Modena.  

“Ti deploriamo soltanto”.

“Sì, non mi spellate ma mi depilate”, scherzò Berenini.

“Questo è vero”, annuì pensoso Zibordi. “Depilati ci rimania- mo tutti, destri e sinistri. Mussolini ci strappa  tutti, come i peli del... un male terribile”.

“Non parlar male, Zibordi, che sta arrivando la signora Kulisciof. Lei è di sinistra aristocratica e certe cose non le vuol sentire”, disse l’on. Gaetano Zirardini, deputato di Ferrara e scultore rovinato dalla politica.

“E’ tragico”, continuò Zibordi. “E’ la fine del riformismo.”

“Non è vero, non far tragedie come al tuo solito”, tuonò Turati entrando.

Anzi, gli intransigenti dopo dovranno coprirsi davanti all’o- pinione pubblica con noi, hanno bisogno di noi; quegli intransigenti dei miei...”

“Filippo!”, sospirò la signora Anna, allungandogli un calcetto, delicato, sotto il tavolo.

“Sì”, ammise Zibordi”, per attirar qualche voto, ma politi- camente no, comanderanno loro”. 

“Ma dove volete che vadano”.

Per spiegarsi meglio, Emanuele Modigliani si alzò in piedi, con la forchetta in mano”. Non san far niente, solo parlare, guarda quel Mussolini, sono curioso di sentirlo”.

“Mussolini è matto, io l’ho ascoltato diverse volte in Romagna, un istrione”, assicurò l’onorevole Genuzio Bentini,  ridendo.

“Badate, istrione sì, ma non matto. Te, Bentini, ti farà passar la voglia di ridere, Mussolini: aspetta un po’. Non è matto, lo fa per non pagar dazio”,

obbiettò Zibordi, con convinzione. “Il tempo dei matti da burla è finito, questo parla come un  matto ma fa sul serio”.

“In conclusione”, disse Turati, dopo aver mandato giù l’ultimo cucchiaio di cappelletti. “Noi voteremo la mozione di Reina, che è buona e fa bene.

E’ una viva deplorazione, una condanna ma non di più.

D’altra parte come si fa a difendere quegli stupidi. 

A parte Podrecca, di cui non m’importa nulla, per gli altri mi dispiace, specialmente per Bissolati; io non vorrei, ma sapete come vanno queste storie.

A un certo punto non si  riesce più a fermarli, è come con le guerre...” 

“Ci sarebbe voluto Prampolini”, presero a piangere i reggiani.” Lui li avrebbe persuasi tutti, i massimalisti a non insistere e i destri a non andar via”.

“Sì, addio mia bella addio”, li sfottè quel diavolo di Modiglia- ni. “Ad ogni modo, io presenterò un ordine del giorno mio. Dirò che col loro comportamento, i destri si sono messi fuori da soli, senza che li espelliamo”. 

“Beh, se non è zuppa è pan bagnato” , commentò Zibordi.

“No”, ribattè Modigliani. “Se loro dicono di non voler andar 

fuori e fanno l’autocritica,  possono ritornare indietro”. 

“Oh, piantala, queste sono trovate da avvocato. I numeri sono i numeri. L’odg  Mussolini può prendere un dodicimila voti; l’odg Reina, di deplorazione, 6000; l’odg Modigliani, dì tu Menè quanti ne prendi…”

“Mah, un tremila…”

“Poi mancano i voti dei destri, un 2000? Beh, se quelli votassero contro, forse l’odg Mussolini non passerebbe.”

“Già, ma vogliono fare i gentiluomini, vogliono astenersi, che poi fanno il loro partito, così mi diceva Cabrini”,  annunciò Berenini.

“Oh, che patacca! Allora non val neanche la pena di difender-

li”, constatò amaro Zibordi. “Va bene, anzi va male, andiamo a letto”. 

A letto c’erano già Mussolini e l’Angelica. Benito l’aveva convocata da lui, nella camera del Posta, ch’era meglio di quella del Cavalletto.

Benito s’alzò improvvisamente, come richiamato da un pensiero.

“Dài, torna a letto”, implorò Angelica, sonnecchiando. Era stanca, una giornata tremenda. Ma si  sentiva gene rosa.

“Lasciami  lavorare, devo completare il discorso, lo devo limare! C’è troppa roba. Non gli lascio neanche il tempo di applaudire”. 

Tagliava le frasi più lunghe, al posto dei tagli scriveva: “Applausi”.

Era caldo. Dalla bifora, che dava sul cortile, filtrava un’aria umida, pesante. Sul tetto del Vescovado, veleggiava la luna  un po’ annebbiata. 

Mussolini era in mutande. Angelica lo sogguardò e rise:
“Bello il Capo in mutande. A me piaci più così, e anche senza”. “Come devo chiudere”, si domandò. “Né adesso… né domani… né mai. Sì, va bene”. E aggiunse: “Applausi vivissimi da sinistra e dal centro.Tutta l’assemblea è in piedi . Grida di Muss-so-li-ni, Muss-so-li-ni!”

“Adesso vengo a letto, ma lasciami dormire”. 

Spense l’abat-jour e dopo due minuti prese a russare.

 Allo Scudo di Francia, anche Turati spense la luce.

“Abbiamo mangiato troppo”, brontolò.

“Te lo dico sempre, ti fa male”, disse l’Anna. “Hai 52 anni e ne dimostri sessanta”.

“Mi dispiace per Bissolati”, sospirò lui. Lei riaccese l’abat–jour e gli disse irritata:
“Ma siete dei bei tipi. Perbacco, Giolitti vi aveva proposto di entrare al governo, aveva detto: Vi dò il suffragio universale, ch’è tanto che lo chiedete, e in più l’assicurazione obbligatoria sulla vita, per tutti gli operai. Non era mica poco”.

“Proprio tu”, disse Filippo drizzandosi a mezza vita. 

“Proprio tu che dicevi che senza il voto alle donne il suffragio universale era a metà, che eri contraria…”

“Sì, ma quello era il mio compito da femminista. Tu avresti dovuto giudicare per conto tuo, politicamente. La verità è che eri inc… arrabbiato perché il Re aveva invitato Bissolati e non te, perché Giolitti aveva promesso i ministeri a Bonomi e Bissolati e non a voi della direzione. Capisco, tu dicevi che era un tentativo per dividervi, per prendervi alle spalle, ed è vero. Avevi ragione; però l’offerta era buona, il momento era giusto... Insomma, adesso ripensarci è da stupidi, a cosa serve. Meglio dormirci su”. 

In casa dei signori Spallanzani, in via Emilia San Pietro, la  

Sarfatti stentava a prender sonno.

“Un’altra volta a letto da sola. Uffa, son stufa! 

Ma domani voglio vedere. Interessante, quel Mussolini, come si può fare…”

Si addormentò con un mezzo sorriso sulle labbra.  

La mattina dopo, all’alba delle nove, molti erano alla partenza del treno delle ferrovie Reggio-Ciano, alla gita annunciata da Costantino Lazzari.

Molti c’erano, ma molti no. Tante riunioni, la notte e anche tante unioni.

Altri erano rintanati nelle camere d’albergo, a preparare i discorsi.

C’era il Vergnanini, come ospite. C’era il Roversi. C’era il Lazzari come invitato d’onore; quasi tutta la direzione u- scente, i giornalisti dell’Avanti!, della Giustizia e anche quei borghesi de L’Italia Centrale e del Resto del Carlino.

La ferrovia era una bella realizzazione delle Cooperati ve; era stata inaugurata  nientemeno che dal Luzzatti, ministro dei Trasporti, che voleva i voti dei socialisti per il suo governo e infatti poi li ebbe.

Poi c’erano le  signore, molte con gli occhi a mezza luna. Poi tanti giovinotti e tante ragazze di Reggio, figli di socialisti che volevano divertirsi. C’era, naturalmente, la Banda Rossa che stavolta suonava l’Aida.

Il treno sbuffò lanciando begli anelli di fumo. Si slanciò per la campagna padana, ch’era nel pieno dell’estate, il grano era appena stato mietuto e il terreno era giallo di stoppie. Ogni tanto, qualche spigolatrice, col mannello di spighe in mano,  salutava agitando il cappello rotondo di paglia. Ogni tanto un drappello di vacche reggiane al pascolo, quelle bianche e rosse, quelle del grana parmigiano-reggiano: era proprio la zona a cavallo del fiume Enza, di qua Reggio di là Parma.

Ogni tanto qualche casaro che  stava riempiendo il truogolo ai maiali, col siero del latte e le mele di casco.

“Che bello”, dicevano le ragazze estasiate, le Pinotti, le Del Bue, le Maramotti, le Ficarelli, le Prandi, c’era anche la figlia  di Prampolini, la Pierina, addolorata per la mancanza del padre. 

“Eh, veh il toro, guardate il toro!” gridavano i ragazzi. “Vedete, adesso le monta!” Le ragazze strillavano e fingevano di coprirsi gli occhi.

“Vuoi che ti racconti la storia del toro quando che monta?”, diceva un ragazzo alla piccola Fernanda Pinotti.

“Va via, stupido, ho proprio bisogno delle tue storie, io”, rispondeva lei, fingendosi arrabbiata.

Nella carrozza di testa,Torquato Nanni era riuscito a cat turare Lazzari e stava cercando di convincerlo.

“Ma è vero che avete offerto l’Avanti! a Salvemini?”, do- mandò.

“Sì, ma purtroppo non ci sta. Ha detto che è uscito dal partito perché è stanco, dice, delle chiacchiere. Figurati l’A- vanti!, rispose Lazzari, carezzandosi  la lunga barba.

“Ohibene, ma datelo a Mussolini, che scrive come un Dio! Noi in Romagna saremmo tutti d’accordo, perfino i riformisti”, suggerì Nanni.

“Sarebbe giusto, ma è presto. E’ troppo giovane, i vecchi hanno dei dubbi, si agita troppo, mette paura a tutti. Per ora ci mettiamo il Bacci, è un romagnolo anche lui, no? Poi si vedrà”, concluse Lazzari. “E adesso lasciami ammirare questa bella campagna. Sembra un paesaggio del Fontanesi. Cos’è quel castello lassù, Canossa?”

“No, Rossena”, corresse Vergnanini. “Matildico anche quel- lo”. Il treno ora cominciava a salire, a fianco del fiume: San Polo, Ciano. La campagna ora s’era fatta collinare, più verde, vigne, gelsi, alberi da frutta. Di là dal fiume, tra gli alberi, il castello di Traversetolo e poi quello di Montechiarugolo, nel parmense.

Tutti scesero, si dispersero nelle trattorie e nei prati per i pic-nic. La Banda Rossa ricominciò a suonare. Qualche inno poi, a grande richiesta, valzer e mazurche.

“La Mazurca del Migliavacca!” , strillavano le ragazze, e furono accontentate. Molti si misero a ballare, sulla pedana di legno nella piazza del paese. 

“Chissà se facciamo bene!”, disse Costantino Lazzari, so- prappensiero, bevendo un bel boccale di vino bianco della collina.

“Ma andate a farvi tosare, voi e la rivoluzione!”,  rispose sottovoce ma non tanto l’onorevole Vergnanini, ch’era  uomo di grande buonsenso.

 

 

Emanuele Modigliani

Turati, Kuilisciof e delegati riformisti