L’indomani
il discorso di Filippo Turati fu debole. Non era il solito piacevole orso che raccontava
cose sagge, concreto e deciso. Non
era il fondatore del partito, il capo parlamentare che tutti rispettavano. Sembrava
l’ombra di se stesso, il suo era un discorso on- deggiante e persino vago. “Sono
contrario alle espulsioni e agli eufemismi di espulsione (l’appunto era diretto a
Modigliani). Non per un vago sentimento di fraternità ad ogni costo, ma perché
convinto
dell’inutilità e del pericolo degli ostracismi alle persone. E’
certamente legittima (continuò) la reazione della sinistra agli errori e agli
eccessi con
i quali i “destri” hanno compromesso le sorti del
riformismo e del partito. (Applausi)
E
non si può negare (aggiunse) che fra le due tendenze estreme, il maggior pericolo viene
da quella di destra, nonostante che io sia più vicino a loro come programma e come
tattica. (E
allora? Interruppe una voce dalla platea. Se sei più vicino stacci, che caspita vuoi?) Il
partito ha bisogno di una maggioranza omogenea , ma questo non comporta una
scissione su cose e principi che appartengono al passato, come la questione delle
congratu- lazioni al Re o delle consultazioni per il governo. (Cosa? Gridò il giovane Vella. Che passato, il Re è ancora lì che passeggia con la sua sciaboletta. Quale governo, quel borghese di Giolitti?) Il pericolo è che l’espulsione creerà un nuovo partito e molti ingenui e sentimentali ci andranno , anche amici nostri. (Bravo! Giusto, è vero! Volete cacciare Bissolati, vergogna! In platea scoppiò un parapiglia e volarono parecchi schiaffi). Non
c’è posto in Italia per due partiti socialisti! (Bene, bravo, questo è proprio vero,
ve ne accorgerete!) Non c’è spazio politico per due partiti! (Applausi
al centro e anche a destra, ma non troppo convinti. Troppo freddo, non aveva sollevato
nessuna emozione. Forse perché anche lui sapeva che ormai la frittata era
fatta.) A
suo modo, fu più convincente Bissolati. Per forza, la testa da tagliare era la sua. “La
mia concezione della politica, è socialista.
Ma dove sta scritto che i socialisti non possono andare al governo?” (Buuu!
Collaborazionista! Nazionalista patriottardo! Giolit- tiano!) Neanch’io
mi fido di Giolitti. Ma perdio, ci ha pur dato il suffragio universale, che era uno dei
nostri capisaldi. (Macchè universale, limitato, non c’è il voto per tutti, le donne non votano, chiedilo alla Kulisciof!) Non
dite questo. Siamo passati dal diritto di voto per tre milioni, al diritto per nove
milioni di cittadini! Anche per gli analfabeti!” (Sì,
sopra i trent’anni e quelli sotto?) E’
sempre un grosso progresso. Vi ricordate quando dove- vamo insegnare alla gente a leggere e
scrivere, per votare? Voi negate le nostre conquiste. E
Giolitti, furbo borghese, ha fatto la legge anche senza di noi, così è una conquista
sua. E lo stesso per la Libia. Anch’io ho votato contro il decreto di occupazione della Libia. Però non dobbiamo lasciare il monopolio del patriottismo ai moderati! (Voce: se lo tenga- no.) Io ho solo solidarizzato con i nostri soldati oltremare, ho di- feso il loro comportamento, hanno fatto il loro dovere!” (Tafferugli in platea e nelle gallerie: si picchiano. Zibordi che è il
presidente
effettivo, grida: “Basta, dateci un taglio!
Lasciate parlare Bissolati, ne ha diritto,
è un vecchio deputato socialista! Smettetela di fare gli imbecilli, che spettacolo
diamo
all’Italia! Smettetela o sospendo il
Congresso!” La minaccia placa la canèa, bene o male si riprende) “Basta”, concluse Leonida.” Vi rendo la tessera, alla quale ho fatto onore per tanti
anni. Senza jattanza, ma anche senza pentimenti e senza risentimenti. Perché le ragioni
per cui devo restituire questa tessera sono ragioni che costituiscono il mio titolo di
benemerenza di fronte al proletariato italiano!” “Siete
passati dalle affermazioni puramente verbali dell’anti- co ferrismo (Buuu!
Lascia stare Muslèn, non permetterti di parlarne, borghese, lingua biforcuta! Botte in
platea.) “Eravamo
tutti contrari alla guerra d’Africa del 1896, perché allora lo Stato era il nemico dei
proletari ; ma adesso lo Stato non è il più nemico, perche’ noi socialisti abbiamo
cominciato ad imbeverlo della forza operaia e popola re!” (Ma
che cosa stai dicendo! Ma vacci tu a fare la guerra per il tuo Stato!) Finalmente,
fu data la parola a Mussolini, per presentare il suo ordine del
giorno. Attaccò nel seguente modo: Ne volete la prova?
(dài, diccela, tiragli la
briscola!) Il suffragio quaaasi universale
elargito da Giovanni Giolitti è un abile tentativo fatto allo scopo di dare ancora un
qualsiasi contenuto al parlamento. Il parlamentarismo non è as-so-luta-mente necessario
al socialismo ma è necessario alla borghesia
per perpetuare il suo dominio! Il
suffragio universale è il sacco d’ossigeno che
prolunga la vita all’ agonizzante. (Eh, che immagine, che parangòun, impressionante, braaavo!)
La
relazione del gruppo parlamentare è così scheletrica e po vera cosa che non possiamo
neanche prenderla in considerazione, non vale la pena discuterla. (Giusto, diglielo, a
quei cagoni!) Quanto
agli atti compiuti dai deputati Bissolati, Bonomi e Cabrini, noi ne chiediamo l’immediata
espulsione. (Voce: E Podrecca?
cosa ce ne facciamo di Podrecca?) Hai
ragione, compagno. Ebbene, che la stessa sanzione colpisca anche “I fatti del 14 marzo (l’attentato al Re) sono un infortunio del mestiere di Re. Il re è il cittadino inutile per definizione. Ci sono popoli che hanno mandato a spasso i loro Re, altri li hanno mandati alla ghigliottina, e oggi sono all’avanguardia del progresso civile. Per i socialisti, un attentato deve essere considerato un banale fatto di cronaca! Pensate
invece, a quanti lavoratori perdono la loro vita sul lavoro! Bissolati, Bonomi
e Cabrini, siete mai andati al funerale di un povero muratore caduto dall’impalcatura?
Mai. O
a salutare la povera vedova? Ma al Quirinale, sì! (Diluvio di applausi, la platea si
alza in piedi, viva Mussolini!) Bissolati, Bonomi, Cabrini e gli altri aspettanti possono andare al Quirinale e anche al Vaticano se vogliono! Ma il partito socialista non ci andrà, né oggi
(pausa) né domani (pausa ) né maiii!” Accadde il finimondo. I delegati si abbracciavano, le signore si baciavano nei palchetti, le ragazze di Reggio che pure erano prampoliniane si misero a urlare come isteriche in loggione. La Banda Rossa attaccò Bandiera
Rossa, anche per far cantare gli urlanti e ammorbidire la situazione. Ci
volle un quarto d’ora per placare il Teatro. Ma quando il presidente di turno
diede la parola al successivo oratore, che era lo sfortunato on. Ca brini, destro, uno dei
“tre re magi” che erano andati a consolare il Sovrano, la folla
attaccò a cantare... l’Inno Reale. O meglio, siccome non era cantabile, a rumoreggiare: I nostri cuori esultano!”,
burubrum, burubrum, burubrum, trallallalla tralleera! Bum, bum, bum trallallallallera
bum, eccetera eccetera. Il
Cabrini non riuscì a parlare e si ritirò in
buon ordine. “Madooonna”,
diceva Torquato Nanni a Benito piangendo di contentezza, “che cosa hai fatto, un capolavoro! Ormai sei il capo del partito.
“E gli asciugava
il testone col fazzoletto a scacchi. “Sùghet che an t’ciap on azzident,
sciugati!” “Ma
che azzident, a sen in loy, siamo in luglio, a g’ò on bel cheld, piotost!” “Stasera
ci andiamo noi alla Campana, tayadeli e castrè”, propose Torquato. “E
quel mezzo vino che hanno iquè, lambrosc.” Parlò
ancora il Modigliani, Menè. Era il fratello meno matto dei Modigliani: l’altro,
Modì,
voleva andare a Parigi a far vedere i suoi quadri, delle donne con dei
colli da cigno lunghi un metro, che piacevano molto agli intenditori moderni.
Al pubblico di Livorno un po’ meno, lo davano per matto totale. Lui
invece, il Menè, avvocato di successo e
giovane depu- tato, era consi derato il più intelligente dei riformisti; ma era
troppo
sofistico. Incominciò
lisciando il pelo alla platea per il verso giusto. Si rivolse a
Mussolini, con
la sua vocina un po’ blesa: “Io ho avuto il piacere di sentirti oggi per la prima volta e ti confesso che la fama di ottimo oratore non l’hai rubata. (Ruffiano! gridarono da destra) Ma in certi momenti mi sono chiesto se sotto la veste del rivoluzionario, quasi anarcoide, non nascondessi qualcosa di giacobinismo vecchio stile, più che la critica del socialismo di stil nuovo. (Ma vatt’a ripone! Gridò la delegazione romana. Cosa fai lì nel mezzo, tirati via!) Perché
quell’affare del Re è una brutta cosa, anche noi l’ab- biamo detto, ma a
parte quello , la tua accusa è un po’ scarna”. (Madonna, e che cosa gli
doveva dire di peggio, Muslén!, commentarono in platea.) Criticò
aspramente i massimalisti; ma poi si volse a destra e disse: “Bell’ipocrita, sì”, disse
Zibordi. “Questi sarebbero i
cosiddetti nuovi
intellettuali, te li raccomando". Si
chiuse in tal modo la giornata e tutti si dispersero per alberghi e balere a commentare il
discorso di Mussolini . Era stato preparato un gran veglione, con buffet, o cena in piedi, all’Arena Estiva, circolo gestito dai socialisti, proprio nel viale della stazione ferroviaria Reggio-Ciano, alla “Gardenia”. Ballavano
tutti, con gran foga, e poi si sedevano ai tavoli. C’era un gran tavolone, di
massimalisti ma anche di riformisti “sinistri “emiliani e romagnoli. I destri erano rintanati allo Scudo
d’Italia, per preparare il Si sarebbe chiamato Partito Socialista Riformista. Al
tavolone della “Gardenia” si festeggiavano i
successi di Angelica e di Benito. Benito non c’era.
Anche i successi li festeggiava per conto suo, a rivedersi come in un
film, che cosa aveva detto, che cosa aveva fatto, come avrebbe potuto far
meglio. L’Angelica invece era più vitale, più umana.
Torquato
Nanni, alzando il calice, le disse: “Oh
“, rispose allegra. “Ci vuol altro. Me ne faccio io, dei Benito. Io ho avuto
tutti gli uomini più belli del partito!” “Sé”,
si alzò Bellelli. “Mo’ me no!” Risero tutti. L’Angelica ci rimase male, per un minuto, Eppoi disse: “Chissà cosa vi credete di essere, voi romagnoli! Ne ho visti io di meglio, russi, svizzeri, tedeschi! Capirai che roba, ho bisogno di vedere voi ”. “Dai,” disse Bellelli abbracciandola. "Dai, che tu sei la meglio. Pesi un po’ poco”, aggiunse alzandola da terra. “Avresti bisogno d’un po’ d’ingrasso qui da noi". “Oh, arriva la borghese”, si slacciò Angelica, additando la Kulisciof che
entrava, con quel suo passo un po’ da pantera, molto femminile. “Non
dobbiamo far vedere che siamo mosci per la vittoria della sinistra”, sussurrò
l’Anna avviandosi verso il buffet. "Su con la vita". “Mi
dispiace per Bissolati”, sospirò per l’ennesima volta Turati. “Oh,
insomma, s’arrangerà. Sono anni che riposano sui vecchi allori, questi qui.
Ho ragione, Margherita?”, si rivolse alla Sarfatti. “Altroché,
qui bisogna pensare al futuro. Mica possiamo sempre stare a “Zibordi, tu che capisci”, lo chiamò Turati. “Come ti è sembrato oggi Mussolini. A me è sembrato un matto passeggero, ne ho visti dei più forti.” “Sarà”, rispose pensoso Zibordi, fumando una sigaretta. “Intanto per ora comanda lui. Fra tre o quattro anni chissà che succederà, inutile pensarci.
C’è
aria di guerra nel mondo, è troppo tempo che sta tranquillo. C’è una pace
innaturale; gli uomini hanno bisogno di sacrifici di sangue ogni tanto. “Ah, siete troppo pessimisti. Io invece vedo un’Italia ancora giovane, che può svilupparsi; e se si sviluppa, non può che diventare socialista o almeno mezza socialista, democratica. C’è un andamento naturale delle cose, un progresso inevitabile; vedi la tecnica, vedi la cultura, vedi la scienza..." “Natura non facit saltus... E invece li fa, eccome. Il mondo è sempre andato avanti
a sobbalzi, a zig-zag; a un certo
punto fa uno scatto, avanti o indietro di un secolo, anche di un millennio. Noi
siamo troppo positivisti. Marx non lo era. Marx era dialettico, non
evoluzionista. Giolitti dice bene: Marx in soffitta. Sì, per ora; ma il suo
metodo d’indagine era giusto.” “Zibordi,
troppa cultura, mi fai diventare triste. E’ a parlare sempre con Prampolini
che fa diventare troppo seri, quello ti rovina il carattere. Ma và un po’ a
divertirti anche te, che sei ancora
giovane” “Turati mio, abbiamo troppa barba. E’ cominciato il tempo degli sbarbati, come Mussolini. Lo diceva Cicerone: guardati dalle facce troppo glabre”. |