LA  FESTA  DEI  SANTI

 

 

 

Racconto di

 

VENERIO   CATTANI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da sempre, ogni 1 novembre, si celebrava la Festa dei Santi. A mezzogiorno, Messa solenne con organo, celebrata da Nostro Signore in persona. La sera, grande Cena di Gala, con Ballo à cotillons, al Palazzo del Celeste Soglio.

La Messa era ogni volta, memorabile. Il Signore era, per sua intrinseca natura, invisibile, ma visibile. Era uno dei tanti misteri della Fede. Non era un vero e proprio corpo, una entità fisica: per quanto fosse indescrivibile, si poteva nondimeno supporre e descrivere, altro mistero della Fede. Era, come dire, una specie di nuvola corporea, dorata e fiammeggiante, una luce, un fuoco, un astro. E appariva vestito, o meglio rivestito, avvolto in una eterea seta rosata e dorata, come un grande kimono, un paramento papale, ma assai più ricco e splendente.

Celebrava con al fianco il Figlio, che data la sua millenaria  modestia e il suo contegno understatement, ereditati dalla Madre, era semplicemente vestito di una  grande tunica bianca, sulla quale spiccava, purpureo, l’Ordine della Resurrezione. All’altro fianco del Padreterno, lo Spirito Santo, che  non poteva essere altro che una bianca colomba. Nell’esercizio della sacra funzione, non si capiva bene quali fossero le sue incombenze; svolazzava distrattamente tra l’altare e l’abside, schizzava verso il campanile, volava verso la porta, quasi cercasse la libertà. Solo al momento dell’Elevazione, quando Nostro Signore levò la Particola e pronunciò: “Ecco il mio corpo”, la bianca colomba si tuffò sull’Ostia, la prese dalle dita del Celebrante e la divorò.

L’organo intonava pezzi celebri, antichi, ora di Pergolesi e ora di Frescobaldi. Fu fatta eccezione al classico con il Miserere di Zucchero, cantato dall’autore medesimo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ma è ancora vivo”, osservò sottovoce San Sebastiano, piegandosi all’orecchio della sua migliore amica, Santa Lucia. “Come ha potuto arrivare fin quassù?” “Mistero della Fede”, rispose devota la ragazza. “Nostro Signore” argomentò San Sebastiano, che non si accontentava di spiegazioni teologiche, “deve aver chiesto una astronave speciale a qualcuno dei viventi, chissà, forse a Berlusconi o a Bush. Certo non a quel miscredente di Putin. “L’organo aveva attaccato con forza l’Alleluya di Haendel, e i Santi compresero che la Messa stava finendo. Si porsero la mano uno con l’altro, in segno di pace, anche se di pace non ce n’era proprio bisogno nel regno dei Cieli, ce n’era fin troppa, fino alla noia.

“Ti posso accompagnare alla Cena di Gala, stasera?”, sussurrò San Sebastiano a Santa Lucia . “Beh” , rispose lei incerta, “sai che non esco volentieri la sera, ci vedo poco”.

“Oh, per questo , “sorrise il giovane, “non c’è problema. Ci vedrò io per tutt’e due. Gli occhi sono la sola cosa che mi è stata risparmiata, per il resto tu sai che son pieno di ferite in ogni parte. Ci sosterremo l’uno con l’altra”.

Sebastiano era un bellissimo ragazzo. Corrispondeva in pieno alla figura che ha affrescato il Perugino in Panicale, fuori le mura appunto nella chiesa di San Sebastiano, elegante e preziosamente  sensuale. Al punto che è stato eletto protettore dei gay, anche se in vita non ebbe mai a che spartire con loro.

Lucia conosceva la sua bellezza, anche senza vederlo. Intanto perché glielo avevano descritto le sue amiche vergini, che erano vergini ma che di bellezza maschile s’intendevano. Poi per quel sesto senso che hanno i ciechi, quella loro immaginazione particolare. Ma anche Lucia era d’una bellezza siciliana non comune, corvina di capelli, candida di pelle: che peccato quelle occhiaie. 

Per passare dalla Cattedrale al Palazzo del Celeste Soglio, non ci voleva molto; era sulla nuvola vicina. Un salto, di quei salti che sanno fare gli immateriali, Santi e Angeli, lunghi e leggeri, aerei; come da un marciapiedi all’altro, ma mai sul duro, sempre sul morbido.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Santi stavano arrivando a frotte. Chi a piedi, chi a cavallo, chi in carrozza. I più, a coppie, come Sebastiano e Lucia, sottobraccio.

Chi a cavallo di un demonio, condannato al servizio  e tramutato in quadrupede, cavallo con le ali alla Pegaso  e con le orecchie d’asino. Nostro Signore aveva recentemente stabilito che era uno spreco inutile  tenere i diavoli a non far nulla, giù nell ‘Inferno. Bastavano i demoni feroci, quelli che frustavano, marchiavano, torturavano i dannati; gli altri, generalmente più giovani e meno incattiviti, era più utile trasformarli in bestie da lavoro: da soma, da guardia, da trasporto, per girare la mola dell’olio o il molino del grano.

Le carrozze infine, non erano che nuvole solidificate. Soffici ma resistenti, come di gomma, ornate e scolpite, come carrozze reali

d’epoca barocca.

Funzionavano mediante una straordinaria, per i mortali misteriosa

energia, che non era animale, né elettrica e meno che mai petrolifera  (che schifo!) Ogni carrozza, appena costruita, era presentata a Nostro Signore, che la insufflava sul cofano  e tanto bastava , il soffio divino, a farla marciare per l’eternità.

Le carrozze erano riservate, come giusto, ai Santi invalidi, che erano tanti. Non contava quindi né la ricchezza né il rango, ma il bisogno. E infatti le carrozze erano gremite di Santi Martiri.

C’era San Pietro, crocifisso a testa in giù. C’era San Giovanni Battista, senza testa. Pure decollato, il grande San Paolo. I decollati marciavano fieramente con la propria testa sotto il braccio, come un elmo. C’era San Lorenzo, ancora tutto sofferente dopo esser stato arrostito sulla graticola, prima da una parte e poi dall’altra. San... spellato vivo. San Tarcisio, giovinetto, lapidato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Lucia avrebbe avuto diritto alla carrozza , accecata com’era: ma non volle lasciar Sebastiano solo, preferiva la sua compagnia. Del resto, Sebastiano aveva presentato domanda, già da qualche secolo: ma alla scadenza d’ogni secolo, veniva rinviato  perché le sue ferite, per quanto mortali, non erano invalidanti, non impedivano a un’anima di deambulare. “Eh, quante storie!”, gli   aveva detto il Prefetto di Palazzo, San Matteo. “Sai allora quante licenze di carrozze dovremmo rilasciare! Pensa a Sant’Agata, a cui furono tagliati i seni; a Santa Maria Goretti, che fu stuprata e uccisa in malo modo, ma vedi là la sua anima come sgambett!

Poi ci sono tutti questi nuovi arrivi, tanti martiri, specie per mano musulmana, dall’Algeria, dall’Africa, da Timor, dall’America Centrale, come accontentarli tutti?”

L’ingresso del Celeste Soglio, e poi la luminosa scalea, erano guardati da due schiere di Angeli armati con alabarda e spadone.

Erano comandati da due Arcangeli, Gabriele di qua, San Michele di là. L’insieme ricordava assai il Vaticano; gli Angeli come Guardie Svizzere ma senza la divisa michelangiolesca, al posto della quale indossavano bellissimi mantelli in panno Lenci, azzurro con stelline dorate. I  due capitani, sembravano la copia esatta  dell’Arcangelo di Castel Sant’Angelo, quello che ringuaina la spada.  

Il Palazzo del celeste Soglio adempieva alla doppia funzione: di residenza di Nostro Signore il Padreterno e di sede delle Feste di Ordinanza, come appunto il primo novembre, Natale, Pasqua.

Il Corpus Domini era dedicato al Figlio, il solo della famiglia che, sia pure soltanto per trent’anni, era stato dotato di un corpo corporeo, in ossa e carne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla Madre, Vergine e Figlia di suo Figlio, era dedicata l’Assunta, che come ognun sa cade di Ferragosto, in modo da congiungere le due festività. Non era festeggiato il Capodanno, perché troppo mondano ma soprattutto troppo frequente; bensì il Millennio.  Proprio di recente era stato celebrato con grande sfarzo il 2000: luminarie, fuochi, danze e processioni. “Peccato”, aveva detto il Padre al Figlio, “che non possano partecipare i tuoi colleghi uomini, i quali purtroppo non vedranno il 3000, perché non se lo meritano”.  “Padre”, aveva risposto il Figlio, sempre caritatevole, “la Speranza non è mai morta. Chissà che non si redimano, prima di allora”. “Difficile”, concluse scettico il Padre, che aveva degli umani millenaria  esperienza, fin dal tempo del Giardino dell’Eden. “Sono troppo cattivi, e pretendono d’essere miei figli! Figurati che mi son pentito di averli adoperati per  sostituire i dinosauri, che erano brutti ma in confronto a loro, dal punto di vista morale, erano angeli!”

Il Celeste Soglio era un enorme palazzo, edificato dal Maderno. Nostro Signore, quando aveva visto dall’alto San Pietro, s’era entusiasmato e insieme ingelosito: “Come”, aveva esclamato, “quel satanasso di Papa Sisto ha una residenza più sontuosa della mia! Aspetta un pò”.  “Quando Carlo Maderno era morto, l’aveva subito convocato alla sua presenza e gli aveva imposto di riprodurre, in materiale nuvoloide e nembistico, il Grande Tempio.

Il Figlio, più moderno, s’era fatto costruire un palazzetto da Wright, meno sontuoso ma più vario,una specie della “Casa della Cascata”.

Allo Spirito Santo, ch’era bizzarro ma sobrio, bastava una comoda e pulita colombaia, con vaschetta dell’acqua e doccia automatica, alla Jacuzzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Madre, infine, era stata la sola fedele alle origini. Ordinò agli Angeli: “Portatemi su al volo la mia cara casetta di Nazareth, tal  quale avete fatto a Loreto. Nessuno dovrà dire che il potere mi ha dato alla testa”. Infatti, la Santa Casa che oggi si venera a Loreto, non è che una fedelissima imitazione, costruita con un gesto del dito indice dalla Madonna in persona.

Insieme, Sebastiano e Lucia entrarono nella grande sala  dei ricevimenti e banchetti del Celeste Soglio. Era piuttosto somigliante alla Sala dei Corazzieri del Quirinale, ma con un tocco  leggiadro stile Versailles. Solo che era grande cento volte tanto, perché i Santi erano tantissimi, specie dopo le spettacolari immissioni ordinate da Giovanni Paolo II, che ne aveva consacrati  decine l’anno per trent’anni.

E si badi che erano ammessi solo i Santi di prima categoria, come appunto Sebastiano e Lucia. Niente Beati, niente Venerabili; i  quali celebravano per conto loro, in residenze minori su nuvole più piccole. Si mormorava che i Santi di secondo e terz’ordine si vendicassero, a modo loro e cioè innocentemente. Le loro feste erano meno sfarzose, ma c’erano orchestre yazz al posto di quelle da camera, si ballava il boogie-woogie anziché il Minuetto e si beveva champagne autentico, anzichè Acqua Santa come al Celeste Soglio.

Al loro ingresso nella Sala, Sebastiano e Lucia furono annunciati

dal Maggiordomo, che era l’Arcangelo San Raffaele. “San Sebastiano Martire, Santa Lucia, Vergine di Siracusa!” Il Maggiordomo elencava rapidamente le particolari virtù miracolose e terapeutiche di ogni santo: “Santa Lucia, gli occhi! San Biagio, la gola! San Rocco, i bubboni della peste! Santa Barbara il fuoco! San Padre Pio da Petralcina, tutto!” e via santificando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tavola era immensa, ricoperta da un’infinita bianchissima tovaglia di Fiandra, lavorata all’uncinetto per secoli e secoli, dalle brave Suore del Beatissimo Cuore di Maria e dalla Carmelitane Scalze, che ora servivano in Paradiso.

I Santi si disposero intorno, ognuno cercando il proprio segnaposto. Erano disposti, come usa, uomo e donna, cioè santo e santa. Sebastiano e Lucia erano stati messi accanto senza alcuna discussione, perché si conosceva il loro fecling ed erano simpatici a tutti per la loro bellezza e cortesia. 

Altri accoppiamenti erano stati più difficili. Per esempio, Santa

Teresa di Calcutta, poveretta, non se la filava nessuno. Nostro Signore aveva dovuto chiamare Padre Pio e gli aveva detto: “Fammi ‘sto piacere. Tu solo hai lo stomaco di reggere Santa Teresa...” “Buona, quella del Bernini?” , sorrise Padre Pio.

“No, non fare il furbo, Santa Teresa di Calcutta... “Mannaggia,

tutti gli anni tocca a me; quanta penitenza mi tocca per quelle quattro chiacchiere che si son dette sul mio conto, tutte calunnie!”.

“Sii bravo, è l’ultima volta. L’anno prossimo ti mettiamo vicino a Sant’Anna,  mia consuocera, un posto vicinissimo al Soglio”, lo persuase il Padreterno.

L’orchestra dei cherubini (santi bambini saliti direttamente dalle cappelle al Cielo) attaccò l’inno d’ordinanza: “When all the Saints to march in in”. Era diretta da un negro con una voce e una tromba stordinari, San Satchmo Armstrong. Prima del suo arrivo in Paradiso, avvenuto nel 1971, si apriva la festa con una Sonata di Arcangelo Corelli, per violino e orchestra. Ma con la venuta di Satchmo c’era stata una vera rivoluzione e una generale richiesta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nostro Signore aveva dovuto arrendersi, facendo forza al suo istinto conservatore. 

Lo aveva fatto convocare dal Reparto Beati e Venerabili e lo aveva ammonito: “Niente sciocchezze, niente sciocchezze, non voglio vedere sottane che svolazzano!”  

Ma dopo Armstrong, il resto del concerto era tutto classico. Prendeva la bacchetta il Palestrina, che era ufficialmente il Maestro di Cappella; e via con  Mozart, Bach, Haendel e per ballare, minuetti di Cherubini, Boccherini, Tartini, Paganini no perché era parente del diavolo, al massimo una gavotta di Byrd e una di Purcell, tanto per accontentare i santi anglofoni.

Il Pranzo, ecco. Il Pranzo era una suprema di ghiottonerie sublimi ma astratte. Due sole gocciole di vino, perché si chiamavano Saint Emilion  e San Giovese; e alla fine, dopo corali implorazioni a Nostro Signore, una Lacrima Cristi col dolce e un Dom Perignon

per il brindisi. Ma per tutto il pasto, Acqua Benedetta, acidula, oligominerale, insapore e inodore; in una parola, imbevibile.

Le portate erano appunto portate, da angeli valletti  su enormi guantiere, una d’oro e una d’argento in fila indiana.

Il Maggiordomo San Raffaele annunciava con voce stentorea: “Ouitres et cocuillage du Pas de Calais… Soup a l’oignon... Glassè de volailles, avec ses garnition de verdures... Canard à l’orange, avec pommes de  terre… Potage de Legumes…

Lapin roti à la villeroyale… Terrine de foi gras... Filet de bœuf  cherolais  avec sauce bernaise… Pied de porc à la perigordine, avec trouffe  des Pirenèes... Buillabaisse  de Marseille et Loup de mer de Menton... Et pour bien terminer, Glass avec crème parmèntière et Tarte Tartine a plaisir des notres Saints hotes!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma purtroppo erano chimere, visioni, miraggi e giuochi di prestigio. Sulle guantiere sfumavano e ballonzolavano grandi gelatine di nuvole, come di zucchero filato e di esile crema, che al minimo soffio dei commensali sparivano. Erano bianche come il sorbetto, rosa come le carni, verdi come le insalate, ma non erano né sorbetti, né carni né insalate. Erano presentate per primo a Nostro Signore, che mandava grandi esclamazioni, ah!, ih!, oh! eh! Il Figliolo condiscendeva agitando la mano in circolo, alla napoletana, come a dire: che delizia , che profumo, che delicatezza.

Lo Spirito Santo manifestava il proprio consenso, scaricando un lancio ogni dieci ospiti, sulla testa indifferentemente di signori e signore.

Solo la Madre scuoteva la testa, sorridendo e borbottando, come a dire: “Ma che finzioni bambinesche, quale bisogno c’è”. E concludeva mestamente: “Anche i Santi si divertono con poco!”

Il Ballo invece fu una cosa seria e lasciò a lungo un gradito ricordo.

Si levò per primo, come ovvio, il Padreterno, che invitò con un inchino la Madreterna. Iniziarono insieme, con grande grazia e buon orecchio, il Minuetto del Boccherini. Il Boccherini Luigi, lucchese, aveva prodotto circa 4000 composizioni, fra cantate, arie, messe, a Parigi, Berlino e Madrid, dove morì povero e scontento. Perché ogni volta diceva: “Ma ascoltate anche la mia Messa, fatemi suonare il mio concerto per violino e orchestra!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Niente da fare. Tutti volevano sempre e solo il suo minuetto: capita a molti di essere ricordati per una cosa sola. Sicchè per consolarlo Nostro Signore l’aveva fatto Santo: ed era una bella consolazione veder ballare sulle note del proprio Minuetto, il Signore e la Madonna.  

Sebastiano e Lucia, con grande slancio e buona volontà, avevano ballato un paio di gavotte di Byrd e di Haidin. Uno sforzo terribile, perché Santa Lucia non ci vedeva, e San Sebastiano, trapassato alle gambe da diecine di frecce, zoppicava paurosamente. Ma anche questa volta fu un trionfo, perché tutti i Santi s’erano commossi a vederli così belli, aggraziati e disgraziati, e avevano finito in un corale applauso.   

Altri Santi avevano partecipato al ballo, in coppie famose. San Francesco e Santa Chiara, per esempio. Francesco era ancora

debilitato dai digiuni, ma da giovane era stato un buon ballerino, e si vedeva. Abelardo ed Eloisa: erano stati molto discussi, per la brutta avventura del povero Abelardo. Ma Nostro Signore aveva capito tutto: “Poverino, se ha peccato ha pagato ben duramente!”

Aveva assolto il filosofo (anche perché illustrava la Chiesa) e l’aveva chiamato a sé.

E i Santi Grisante e Daria, martiri reggiani  decapitati da quei cattivi degli antichi romani, “al tempo degli dei falsi e bugiardi”.  

E persino, alla fine, Padre Pio con Madre Teresa di Calcutta, che non avevano scambiata una parola in tutta la serata. Lei era così leggera e spirituale che Padre Pio, con quelle sue manacce da boscaiolo, la faceva volteggiare come un passerotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Beh, fu una gran bella festa, quel  primo di novembre.

“Domani c’è un’altra festa”, disse Sebastiano a Lucia. “Quella dei morti. “Oh,ma  è triste”, osservò lei.

“Ma perché: in fin dei conti, sono come noi, bravi ragazzi, un po’ meno santi. Sono  spiritosi. Hanno aperto una grande balera  a mezza strada fra il Paradiso e il Purgatorio, dove ballano il liscio

con l’Orchesta di Primo Casadei”.

 

VENERIO   CATTANI

(www.veneriocattani.it)