LA GHIGLIOTTINA
L’ultimo giorno doveva essere quello della ghigliottina. Era già stata metaforicamente alzata sul palcoscenico del Teatro Politeama Ariosto. Lo
spettacolo era apparecchiato. C’era la Convenzione sul palco; c’erano i popolani dai volti truci in platea. C’erano le
tricoteuses, nelle vesti delle delegate e delle ragazze di Reggio, in galleria. Fu
nominato presidente Costantino Lazzari, futuro segretario, ch’era della maggioranza e
aveva l’autorità per tenere in pugno l’assemblea dei socialisti scalmanati. Però l’aria
era cupa, in fin dei conti c’era molta malinconia, sia nei vincitori che nei vinti. Prima
di passare alla “conta”, cioè al conteggio dei voti sulle mozioni, diede la parola
all’ultimo oratore, sia perché era di Reggio, Giovanni
Zibordi, sia perché parlava anche a nome dell’assente Prampolini, sia perché era l’unico che poteva tentare una impossibile riconciliazione, in extremis.
Sotto
al palcoscenico, c’erano ancora una volta i massimalisti romagnoli, intorno a
Mussolini.
Benito s’era fatto la barba, sia perché era domenica sia perché era il giorno della
vittoria. Aveva anche una giacca nuova, di lino e s’era fatto spuntare i baffi e quel
poco di capelli, dal barbiere del Posta. Come spesso faceva, si bilanciava sulle gambe,
punta e tallone, punta e tallone, dritto in
piedi petto in fuori. Quando
Zibordi cominciò a parlare ci fu un leggero: “Buuu!” “Lasciate
ben che dica”, impose Mussolini alzando il braccio, la palma aperta. “Tanto ormai
non conta niente”. Giovanni
Zibordi disse: “Noi
riformisti di sinistra siamo stati chiari sul problema della guerra. Prampolini l’ha
scritto sulla Giustizia ogni giorno e ha dettato la parola d’ordine del partito: Abbasso
la guerra! (Moderati applausi) L’ha scritto anche
per l’Avanti! : No, no. Ogni guerra, che non sia necessariamente di difesa, è un
delitto infame. Si glorino i signori borghesi, del loro patriottismo.Noi non siamo né
ladri né omicidi. Abbasso la guerra! (Altri applausi, più convinti, molti avevano
letto quell’articolo di Prampolini) Messo
in chiaro questo (continuò Zibordi), preciso che noi siamo per la condanna ma non per l’espulsione
dei “destri”. L’affare dell’andata al Quirinale ci sembra che non sia una “ragion
sufficiente”. L’indomani dell’attentato
io dissi a Prampolini il mio disappunto per il gesto di Bissolati, Bonomi e
Cabrini. Ma lui
mi rispose che avrebbe voluto andarci anche lui, insieme a tutti gli altri deputati
socialisti, non per congra- tularsi, ma per significare la riprovazione socialista del
regici- dio. (Bella roba !insorsero gli
intransigenti dalla platea. Sares- te da buttar fuori anche voi! Schiaffi e
seggiolate.
Hanno offeso Prampulein, cazzèi fòra! Rispondevano i reggiani. La piccola Fernanda
Pinotti, sporgendosi dalla galleria, prese
a ombrellate un grosso massimalista che urlava lì sotto.) Voi
urlate (riprese Zibordi) perché non sapete neanche deci- dervi tra la civiltà e il regicidio! Non avete il coraggio di dire che il regicidio è una brutale violenza!” Sedato
il tumulto, Lazzari diede letture delle tre mozioni. La
prima, a firma Benito Mussolini, diceva: La
seconda, a firma Reina ed altri, diceva: La
terza, a firma Modigliani , accettava la mozione Reina ma aggiungeva: “ Messe
ai voti per “appello nominale”, operazione lunghissi- ma, le mozioni raccolsero: Mussolini...
voti 12.556. Reina..........voti 5.633 Modigliani...voti
2.027 Gli
espulsi si astennero (per correttezza, dissero) , 2500 circa. Se
tutti i contrari avessero votato insieme contro l’ordine del giorno Mussolini, forse non
sarebbe passato. Quel
voto decise il Congresso. Poi ci furono piccole questioni, ma una indicativa. Nino
Mazzoni aveva presentato una mozione per l’espulsione dei massoni. Lerda allora
imme- diatamente offerse le dimissioni dal partito. Terminò
inneggiando alla ritrovata strada del socialismo che con gli
integralisti in maggioranza, avrebbe finalmente ripreso “la lotta
contro lo Stato e contro la Reggia!” Infine si
nominò la direzione, tutta quanta di massimalisti: Lazzari, Mussolini, Serrati,
Morgari, Vella, Bacci, Balabanof eccetera. Come
previsto, elessero unanimi Lazzari segretario; Bacci fu nominato direttore dell’Avanti!, perché era il solo pubblicista
disponibile, ma con riserva: E
infatti, appena tre mesi dopo, avvenne così. Quel
pomeriggio di domenica, Benito e l’Angelica lo dedica- rono a una gita in collina.
Chiamarono un taxi in piazza del Duomo, proprio sotto il Municipio del Tricolore. “Dove
si può andare, a fare una bella gita e a mangiar bene? In collina, naturalmente”.
“Beh, si potrebbe cominciare ad Albinea e poi venir già da Scandiano. O sennò andare dall’altra parte, ch’è pure molto bella, le Castella della Contessa Matilde, Canossa, Rossena”. “No”,
disse Benito”, quella parte l’abbiamo già vista con la gita in treno. “Eh, siete del Congresso”, disse lo chauffeur, che
naturalmen- te si chiamava Camillo.
“Lei è il signor Mussolini, vero? A me mi hanno chiamato Camillo, come
Prampolini.
Sa, mio padre era vecchio... ma io sono rivoluzionario, come
lei”. “Bravo
Camillo”, sorrise l’Angelica. “Andiamo, sono curiosa di vedere come và, ‘sto
macchinone”. Lo
chauffeur indossò lo spolverino, il berretto, gli occhialoni. Sembrava
Brilli-Peri, il
corridore di moda. Faceva anche le curve alla Brilli-Peri, con
la sterzata di coda. La
macchina rumoreggiando, saltabeccando, fumando, s’inerpicò poco a poco su per la
collina. La strada era molto bella, ma con molta polvere e ghiaia. I contadini e i carri,
lungo il percorso, si facevano in là, con un po’ di paura. La
strada era bella dritta. “Ecco
a destra Rivaltella, era la villa del Duca di Modena, una volta!”, indicò
fiero Camillo. “Adesso ci andiamo noi a ballare, à balèr!” Poi
la salita si fece dura e il motore cominciò a fumare. “Ma
ostia, prende fuoco!”, gridò Benito all’orecchio dell’au- tista . “Niente
paura, un minuto solo”. Si
fermò a fianco di una casa colonica. Al mezzadro ch’era venuto a vedere, Camillo
ordinò “Portatemi
un secchio d’acqua!” Arrivarono
di corsa un paio di bambini, con secchi e imbuto. “Madonna,
che bella FIAT”, disse uno. “Ma
è nera, a me piace di più rossa!”, precisò l’altro. “Ad
ogni modo è un bel vedere”. “E
un bell’andare!”, commentò il padre mezzadro. “E’ un andare da signori, proprio
da borghesi, ce n’ ha una anche il mio padrone, il Conte Calvi”. “Zitti,
ma cosa parlate da minchioni!”, lo redarguì Camillo. “Questi sono due
rivolussionari,
altro che borghesi, voi volete farmi perdere i clienti!” “Per
me”, concluse il mezzadro “tutti quelli che vanno in macchina sono dei borghesi”. L’automobile,
rinfrescata, riprese la salita, su fino al Castello d’Albinea. “Guardate
che bello da qui”, Camillo aiutò a scendere la signorina Angelica. La sollevò
delicatamente per le ascelle. “Si vede
tutta la pianura padana. Qui sotto c’è Reggio,
sembra di toccare con la mano le torri e i campanili! Più
in là a sinistra c’è Parma. E là a destra, c’è Modena”. “E’
vero”, gridò l’Angelica, “si vede distintamente la Ghirlan dina, vedi Benito, quella torre altissima, bianca, laggiù”. “Panorama
bellissimo, davvero, complimenti”, disse Benito a Camillo, quasi che la Ghirlandina l’avesse costruita lui. “La
Ghirlandina di Viligelmo” aggiunse facendo sfoggio di erudizione, “con sotto la
Secchia rapita del Tassoni”. “Come
fa ad esserci la Secchia se l’hanno rapita”, rise Angelica, allegra. “Beh,
quella era antica, adesso ce n’han messo un’altra”, con cesse lui. “E
guardate in fondo in fondo la corona delle Alpi”, li fece fissare Camillo. “Si vede benissimo che c’è ancora della
neve, la punta dei ghiacciai!” “Verissimo,
è spettacoloso, grazie proprio. E adesso “battè con l’ombrellino sul braccio di
Camillo , “dove andiamo a pranzo?” Lo
chauffeur si era piegato all’estenuante fatica della mano- vella di avviamento.
Grrr, grrr, grrr! frugliava il motore ma non voleva partire. Ci
voleva lo scatto del polso al momento giusto. “Lo
so”, raccontò Camillo. “E’ terribile, se c’è il contraccol po mi rompe il
braccio, m’è già successo una volta e adesso ho fifa”. “Ecco,
anche con le macchine più progredite c’è sempre pericolo per i lavoratori”,
commentò
Benito. “T’han fatto l’assicurazione i tuoi padroni?” “Non
ho padroni, la macchina è mia. E per l’assicurazione non ci ho ancora i soldi, costa
troppo”, affermò orgoglioso Camillo. “Prendi
nota Angelica: assicurazione obbligatoria gratuita per i lavoratori”, “Per
la verità Giolitti ce l’aveva già
proposta”, sussurrò lei. Finalmente
la macchina partì, senza che Camillo si rompesse il braccio. Tutto giulivo disse: “Andiamo
a mangiare da Lisandret, su quell’altra collina”. “Vieni
a mangiare con noi, compagno”, l’invitò paterno Benito. “Grazie,
mi metto di là, col mio amico Lisandret”, ringraziò Camillo. Il
panorama era bello, c’era sole e caldo, anche troppo, la terrazza era coperta da frasche. Mussolini
guardò Angelica, come se la vedesse per la prima volta. “Angelica”, le disse. “Ti devo tutto. Io so che ti devo più di quello che tu credi che io ti
debba”. “Non
cominciare con le tue frasi da romanzo”,
lo
redarguì lei, a voce bassa. “E’
vero. Senza di te sarei rimasto un piccolo agitatore, il solito rivoluzionario
romagnolo, come tanti. Tu sei stata la sola vera maestra che ho avuto. A parte mia madre.
Mia madre mi ha insegnato l’ABC della vita, tu mi hai insegnato l’ABC della politica.
Mi hai rivelato tutto, ma soprattutto mi hai fatto credere in me stesso”. Lei
gli strinse la mano. “Per
fortuna arriva l’oste col vino, a momenti riuscivi a commuovermi”. “Non troppo pesante”, propose Lisandret, “e rapido, che dovete viaggiare. No cappelletti, è troppo caldo. Del bel cula- tello, del salame di Felino, coi chicchi di pepe che fanno bene alla salute (ridacchiò); poi del buon erbazzone e dal gnoc frèt”. “Hai
capito che leggero?” sorrise l’Angelica.
“E
un litro di lambrusco bello fresco, qui del Capriolo”. Ripartirono
per Scandiano. Lo chauffeur Camillo fece una strana deviazione per un’altra collina,
quella di Montericco. “Qui
c’è un altro castello, molto bello, guardatelo. E io intanto scendo qui al cimitero,
dove ci sono mio padre e mia madre, un minutino solo”.
Per
discese, per salite e tornanti da capogiro, passarono per la Mussina: “Una grotta
terribile, grandissima, una volta mi ci sono perso dentro”, “Questo
è il castello di Boiardo, il poeta”, indicò Camillo. “Già”,
disse Benito, e insegnò all’Angelica. “Quello dell’Or- lando, ma l’Innamorato, non il
Furioso”.
“Sì”,
sospirò l’Angelica, “il contrario di te, che sei sempre furioso e mai
innamorato”. “Oh, quante storie. Comunque c’era l’Angelica anche nel poema di Matteo Maria
Boiardo, c’è sempre un’Angelica di mezzo”. Era
caldo e prima di scendere a Reggio: Ora
l’automobile correva allegramente verso la pianura. L’Angelica, contenta,
contentissima, della vittoria, del viaggio e anche di Benito (Sei stato meno musone del
solito), s’era messa a cantare. In tedesco, “Al Cavallino Bianco”, allora di moda.
Camillo provava a seguirla, ma era stonato come un cucciolo, e poi doveva accendere i
fanali, che non erano elettrici ma ad acetilene, non
si vedeva proprio una beata. “Sta
attento te, invece di cantare come un bèriegh, un imberiaco”, lo ammonì
Mussolini. Fortunosamente
arrivarono al Posta, Benito pagò (caro), Camillo si scappellò con la destra e salutò a pugno chiuso con la sinistra. I
due si chiusero in camera per l’ultima notte reggiana. Erano cotti di stanchezza, con
tutto quello scombussolamento d’automobile.
“Angelica
alzò una coppa di “Asti spumante, Principe di Piemonte”e brindò:” Faremo
Capodanno a Milano, all’Avanti!”.
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