LEONIDA E IVANOE

   

Il Teatro dove avrebbe avuto luogo il Congresso era il Politeama Ariosto. L’amministrazione di allora, fatta di gente che capiva, guidata dal Luigi Roversi ,aveva negato il Teatro Municipale , il teatro d’opera.

“Scherzate?” aveva detto Roversi. “Il Teatro, al Teater,  non  si da a nessuno. Darlo al Congresso del PSI sembrerebbe partigianeria, non mi voglio far dire dietro, io. Eppoi, dopo, non si potrebbe più negare a nessuno, ai liberali, ai preti, alla Camera del Lavoro. No, al Municipale musica e basta. E buona musica.” “Eppoi”, aggiunse, l’Ariosto è anche meglio. 

E’ dedicato alle commedie, alle operette, al balletto. 

“E’ bello, è moderno”, assentì Zibordi. 

Che cos’è in fin dei conti un congresso di partito, se non una commedia? E talvolta un balletto, addirittura un’operet- ta. 

E’ più adatto”. “Fatti benedire, ma forse hai ragione tu”, convenne Zibordi, che non volle insistere.

“Poi c’è la sala sopra, molto grande, per le riunioni delle correnti. Che invenzione, le correnti, vadano a farsi  fottere. Poi ci sono le sale piccole per le correntine; metti tre socialisti e hai tre correnti, più le mezze ali, e sono cinque, come l’attacco della Reggiana. E dopo tutto questo lavoro e queste spese, andrà a finire che ci divideremo ancora, io di qua e te di là, come se ce ne fosse bisogno, come se agli italiani gliene fregasse qualcosa. Ma è vero che faranno la scissione?”

“E’probabile. Gli altri li vogliono espellere: anzi, per la verità ci vorrebbero espellere tutti, per fortuna è fatica espellere Turati e Prampolini. Dopo, cosa andrebbero a raccontare, questi patacca”.

Andarono a visitare il Teatro Ariosto, per predisporlo.  

“Lineare, aperto, non ci sono tutti quei bussolotti di palchi e di camerini,  buoni solo per scopare. Bello lassù”.

Indicava la volta, con il grande lampadario e l’affresco del- l’Orlando a Roncisvalle, con la scritta intorno: “Le donne, i cavalier, l’armi gli amori, le cortesie, le audaci imprese io canto che furo al tempo che passaro i Mori, d’Africa il mar e in Francia nocquer tanto”. Zibordi lesse e poi commentò: “Ecco, questo bisognerebbe leggere all’inizio del Congresso, o una favola simile. La gente si metterebbe tranquilla e dopo un po’ s’addormenterebbe”.

Alzò la zanetta e disse: “Cominci tu, con il saluto della città. Mi raccomando, buono, addormentali.    

La presidenza siederà sul palcoscenico. Ci sarà quel trombo- ne del Lazzari che vorrà fare il discorso iniziale e lascialo dire, tanto conta poco.  

Poi, i delegati in platea e gli invitati  nelle gallerie, i reggiani nella prima e gli altri nelle due superiori. I reggiani che facciano un po’ di claque per i riformisti, sennò li fanno a pezzi con le urla e gli improperi”.

“Un po’ di claque anche per te e per me. Prampolini non c’è, mi sembra “Il fantasma dell’Opera”; parlerai tu, vero?”

“Che guaio,avere un Grande Capo, buono  e bravo, ma nevrotico. Avrebbe dovuto riempirsi di pillole, magari di morfina per star calmo, ma esserci.

Questa volta toccherà a me prendermi i fischi, spero siano solo fischi. Và bene, è il mio compito”.  

“Che Dio ce la mandi buona”, concluse il Sindaco Roversi e spense la luce.

La settimana dopo, questa era pure la visita di Benito Mussolini.  

Come un buon matador, era venuto a studiare l’arena.

“Bello”, disse a Nanni. “Deve avere una buona risonanza”.

“Figurati”, confermò Nanni. “Ci fanno le operette. Qui non ci sono trucchi”.

Abbracciò Mussolini e abbozzò un passo di danza.

“Ninfa, o ninfa, o ninfa del bosco!”, canticchiò sull’aria della Vedova Allegra.

“Smettila di fare il buffo”, strillò Benito.  

“Provavo la risonanza, va perfettamente,” disse allegro Nan- ni. “La risonanza la faccio io!”

“Sei il solito, vuoi fare tutto tu, sei insopportabile!”

“Vatti a mettere in quel palchetto di proscenio e guardami da là in qua”.  

Torquato andò al palchetto e gridò:

“E allora ?”

“Io ti sento ma tu mi sentiiii?”

“Cappio, che ti sento; con quella voce penetrante ma ambi- gua”.

“Cittadini! Ciiittadini! Cittadiniii!”, riprovò Mussolini. “Sì, è perfetta, non c’è eco e si arriva dappertutto”.  

“Meno male”, disse ritornando Nanni . “Però io preferisco la mia voce, se permetti: è più maschia”.

“Non basta la voce, è quello che ci metti”.

“Perché”, obbiettò piccato Nanni, “cos’è che io non ci metto?”

“Parlare in pubblico è una scienza. Tu la conosci bene ma non riesci a trattenerti. Sei prolisso, fai periodi troppo lunghi perché ti vuoi spiegare”.

“Perché, non mi devo spiegare?”

“Non c’è niente da spiegare. Troppo tempo e poi è 

inutile. Bisogna im-press-iona-re! Bisogna stu-pi-re! Bisogna pe-ne-tra-re!  

Soggetto; verbo; complemento oggetto. E basta! L’uditorio si deve ricordare la tua frase, la deve ripetere, gli deve entrare qui (le orecchie) qui (la testa) e qui (il cuore). Che c’è da spiegare? Ti deve credere”. 

“Benito, a tiè propri matt”.

“Ve lo farò vedere io se son matto. Intanto questo congresso lo vinciamo noi, anzi lo vinco io!” Guardò l’orologio.

“Andiamo in stazione, arriva il treno di Lazzari. Devo parlargli, devo vederlo per primo. Quello è un vecchio trom- bone, chissà cosa fa se non ci sono io. Madonna, si mettono a piangere, si mettono a cantare, se bevono un po’ si riabbrac- ciano! Qui bisogna tener duro, qui si giuoca tutto!” 

All’Albergo Scudo di Francia, i riformisti di destra avevano tenuto una riunioncina preliminare. Non erano in molti.

Presiedeva Leonida Bissolati. Era deputato di Cremona; aveva una cinquantina d’anni o poco più.Era stato uno dei più amati e rispettati del partito; quasi come Turati e Prampolini. Era stato il primo direttore dell’Avanti!; anzi, con lui l’Avanti! era diventato un grande giornale. Quel giornale con il punto esclamativo e il nome in rosso che era un grido di battaglia; era anche il nome di altri giornali socialisti, il primo in Germa- nia. Una gran bella testata, una trovata  pubblicitaria.

Dopo di lui, avevano capito che il giornale era importan- te, quasi come il partito e tutti i capi e capetti avevano fatto un turno alla direzione dell’ Avanti!, Enrico Ferri ad esempio. Ma Enrico Ferri era come in genere i socialisti, geniale ma un po’ balengo, logorroico e opportunista. Era più un grande av vocato che un grande giornalista.

Bissolati era invece un buon giornalista e un buon oratore; e diceva cose serie, forse troppo serie per quei tempi. Era un politico vero. Negli ultimi anni, aveva virato, come si dice, “a destra”. Aveva votato, come gli altri del resto, per il governo Luzzatti, qualche volta per Giolitti, una volta per Sidney Son- nino, il “barone di ferro”. E ora diceva che basta, era tempo di smetterla di fare i bambini, bisognava andare al governo.

E su questo punto aveva ragione.  

Senonché, forse per debolezza, forse per leggerezza, si era esposto, con iniziative inutili. Aveva accettato di andare a fare le consultazioni di governo dal Re. Ci era andato all’inglese, quasi fosse il capo della “opposizione di Sua Maestà”. 

Ma si sa, gli italiani non sono inglesi.   

“Un socialista non ci va dal Re”, e basta, c’era poco da dire. 

Ma peggio in marzo, con l’attentato. Il muratorino D’Alba, uno che capiva poco, poveretto, aveva sparato al Re Vittorio Emanuele III e non l’aveva preso. L’iradiddio. Bissolati s’era messo il cilindro, le ghette, e con Bonomi e Cabrini erano andati a congratularsi col re, come aveva fatto del resto il novanta per cento dei deputati. Turati era stato zitto, Prampo

lini non s’era mosso ma era d’accordo; ma Lazzari, Mussolini, Lerda, Vella, “Anatema”, tradimento, nonsifa.

E infine, la guerra: quel mostricciatolo di guerra di là dal ma- re, per la Tripolitania.Tutti gli altri Paesi europei potevano occupare ilMediterraneo, ma all’Italia che ci stava nel mezzo, non era permesso.

E adesso il Congresso. Restare in minoranza, passi, ma adesso erano messi alla porta. Espulsione, parola terribile per l’am biente socialista: la scomunica.

Bissolati era veramente amareggiato. 

“E’ inutile star qui a dispetto dei santi. Qui saremmo schiac ciati e linciati chissà per quanto tempo; certamente non sa- remmo neanche rieletti, non ci ripresentano. Sul giornale, l’A vanti! fatto fuori Treves, non potremo più scrivere. Letteral mente, non potremmo più far politica. Mi dispiace, ma biso- gna andarcene. Faremo un piccolo partito, un piccolo giornale, ce l’abbiamo già un settimanale, l’Azione Socialista di Bonomi, un piccolo gruppo parlamentare, e almeno diremo la nostra”.

Ivanoe Bonomi convenne con l’analisi. Bonomi era molto più giovane di Bissolati, non aveva ancora quarant’anni. 

Era deputato di Mantova. Bissolati era un capo storico del partito, Bonomi rappresentava l’evoluzione più moderna del riformismo, nel senso della revisione del marxismo.

Si era reso noto nel 1904 con un libro che ripeteva quello di Bernstein, “I  presupposti del socialismo”;  il suo si chiamava: “Le vie nuove del socialismo”. In sostanza, era l’inizio della socialdemocrazia, qualcosa di più del riformismo.

Nel precedente Congresso di Modena aveva sostenuto la tras- formazione del partito in una specie di Labour Party; non quindi un partito della tradizione rivoluzionaria, ma un coa cervo di forze economiche e sociali progressiste che si espri meva nel Parlamento.  

Queste idee avevano incontrato lo scetticismo di Turati che aveva risposto: “Il partito è quello che è”.  In Italia era così, l’Italia non era l’Inghilterra e neanche la Germania, bisognava tenere unita la baracca col suo carico di chiacchieroni, rivoluzionari, integralisti , socialcristiani, riformisti e tutto il resto. Era questo il limite ma anche la forza (la forza d’inerzia) di Turati, il realismo riformista. 

Però questa lentezza e questa pigrizia intellettuale  davvero paralizzavano il partito, non lo portavano da nessuna parte.

Cabrini, Canepa, Berenini, Bertesi e pochi altri, seguivano i capi dei “destri”verso il buio della scissione.  

Decisero che era meglio scendere al pianterreno, al ristorante dello Scudo di Francia. Per consolarsi.

Era quello un tempio della cucina reggiana, e lo rimase molto tempo anche dopo.

Il centrotavola era imbandito di forme di grana e di ciccioli, i frittoli di grasso di maiale, contornate di piramidi di bottiglie di lambrusco. Lo chef correva tra i tavoli con il carrello fu mante dei bolliti. Il bollito reggiano, con quelle trovate che facevano la delizia dei buongustai: lo zampone e il cotechino; poi il lesso di manzo e di cappone; poi la lin- gua e la testina; e tutto accompagnato dalla salsa verde e dalla mostarda di Viadana. E il pane a tortiglioni, croccante d’olio (e di strutto) E le gran tondine di cappelletti in brodo, miracolosamente in bilico sulle teste dei clienti: il socialismo del colesterolo che per fortuna allora era quasi sconosciuto, e comunque i reggiani non se ne curavano più che tanto.  

Quei cappelletti che poi sono gli anolini di Parma e i tortellini di Bologna, ma guai a dirlo, si passa, giustamente, per incom- petenti. Non è solo diversa la forma (e molto) ma anche le dosi all’interno. Come se facesse o no differenza che ci sia, nel ripieno, la mortadella o il prosciutto; come se un brodo fosse uguale, con  manzo e cappone o senza l’uno o l’altro. Come se  le tagliatelle fossero uguali, al burro o al ragù.

E per finire  i dolci di Reggio, la Spongata di Brescello, la brazzadella e la millesfoglie. Intorno a questo bendiddio, co minciavano a riunirsi i riformisti, sia destri che sinistri. Erano arrivati Turati e la Kulisciof, Zibordi e Caldara, Filippetti e Pescetti (il Contino), Nino Mazzoni e Berenini. Si sentiva la  voce stridula e vivace di Emanuele Modigliani, astro nascente del riformismo. Sembravano tutti buoni amici e in realtà lo erano, o almeno lo erano stati. Ma l’amicizia è una cosa e la politica, si sa, un’altra.    

Così cenavano in buona  armonia, ma  sotto il tavolo affilava no i coltelli; come nel brindisi della Traviata, tutti rimandava no i dispiaceri a domani.

Leonida Bissolati Ivanoe Bonomi (1944)