I MILANESI A
CAPO NORD (racconto fantapolitico) di VENERIO
CATTANI
|
Nell’anno
del Signore 2013, un primo gruppo di italiani, all’inizio
dell’autunno, giunse al Circolo Polare Artico. Era
l’avanguardia di una grande migrazione che dal Sud dell’Europa stava
trasferendosi verso il Nord, tra inaudite difficoltà. Duri conflitti,
incredibili avventure. La migrazione meritava l’aggettivo di biblica,
che in precedenza era stato dato alle migrazioni dal Sud del pianeta
verso l’Italia e l’Europa. Essa
era dovuta a dieci anni di siccità e carestie, sempre più durevoli,
implacabili e irrimediabili, che dopo il 2000 avevano colpito e piegato
l’Italia. Non
c’era stato nulla da fare, per arrestare o almeno ritardare, il
mutamento climatico. I 30, poi 35, poi 40 e ora anche 45 gradi di calore
all’ombra, accompagnati da tassi elevatissimi di umidità, un tempo
straordinari, erano ormai diventati usuali. Il fenomeno che non era più
tale, si ripeteva ogni anno; dapprima una siccità di due mesi, poi di
tre, poi di quattro; da maggio a metà settembre non cadeva, si può
dire, goccia d’acqua. E le intemperie successive, le violente
inondazioni, i disastrosi rovesci, le micidiali grandinate, le
trombe d’aria e gli uragani, non facevano altro che completare
l’opera distruttiva; perché, insufficienti o tardive a riempire gli
invasi, a ricreare le falde d’acqua, a ricostituire i ghiacciai e i
nevai, inondavano campagne e città, causavano rovinosi smottamenti
delle montagne e colline. Ormai, la medesima orografia dell’Italia stava vistosamente mutando: lagune e valli e foci di fiumi erano diventati paludi; meravigliose città, come Ravenna e Venezia, si stavano sgretolando, sbriciolando, spopolando. L’agricoltura, che pochi decenni prima era un vanto dell’Italia in Europa, non bastava nemmeno più a nutrire gli abitanti; |
e peraltro, anche le
importazioni erano oltreché costose, difficili, perché la popolatis-
sima Europa poteva dar poco, il bacino mediterraneo era nelle
medesime condizioni climatiche dell’Italia, e le derrate alimentari
arrivavamo dal Sud dell’America e dal- l’Estremo Oriente. Ma
anche la popolazione italiana stava rapidamente cambiando, se non
addirittura scomparendo. L’imponente immigrazione extracomunitaria,
pur essendosi ormai arrestata date le condizioni economiche disastrose
dell’Italia, composta di esseri più adusi e adattabili al clima e
alla povertà, costituiva la grande maggioranza della popola- zione
rimasta sul posto. Città come Firenze e Roma erano ormai città negre,
mentre cinesi e asiatici abbondavano al Centro–Nord. Il lavoro
manuale era per intero loro affidato, ma anche l’attività commerciale
era in gran parte gestita da comunità asiatiche e arabe.
E
conseguentemente, anche il mondo politico era radicalmente mutato. Da un
paio d’anni esisteva un governo tecnico, di salute pubblica, governo
di una emergenza diventata vontinuità. Tale governo era pariteticamente
composto da immigrati e da italiani. Ultimamente era stato nominato
Presidente del Consiglio (o meglio, si era con l’astuzia impadronito
del potere, sfruttando le eterne inimicizie locali tra gli italiani) il
cinese Wang Fang Gee, che aveva comprato giusto due anni prima la
cittadinanza italiana a Prato. Il Presidente della Repubblica, Silvio Berlusconi, esercitava una autorità più che altro nominale, fittizia, ornamentale. Del resto, risiedeva lontanissimo e tranne un paio di viaggi l’anno, comunicava col governo per internet o via radio.
|
Telefonava a Palazzo Chigi dalle Isole
Shetland, molto a Nord
della Scozia; esattamente nella più settentrionale isoletta,
Therma Ness, che aveva acquistato ancora a buon prezzo. Come dice il
nome, l’isola era ritenuta dagli antichi scotti la fine del mondo. Ma
Berlusconi ci si trovava bene e
finalmente in pace col mondo e con se stesso. In pochi mesi, era
riuscito, dopo aver venduto Mediaset, appena un attimo prima che il
titolo sprofondasse per assenza di audience e di pubblicità, ad
accaparrarsi il monopolio delle famose lane Shetland. S’era
costruito una poderosa villa sull’Oceano, certo non paragonabile né a
quella di Portofino né alla sarda Certosa; ma almeno
qui faceva fresco e poi arrivava
qualche refolo di Corrente del Golfo, che faceva sembrare l’aria, in
agosto, quasi tiepida. Il
Presidente viveva a stretto contatto con le pecore e le balle di lana
e con un fantastico allevamento di border-collie. Una bella
signora del posto, settantenne
ma dato il clima ancora ben conservata e compatta, gli aveva
confezionato dei giubbetti di pelle di agnello, elegantissimi, con il
vello dentro e il cuoio all’esterno. Il Presidente Silvio beveva
abitualmente birra nera, del genere
Guinness e accanto
al camino si riscaldava con ottimo whisky di dodici anni, col quale si
preparava enormi caraffe di
Irish Coffy. Insomma,
non trascorreva male la sua vecchiaia. Nel pieno inverno, prendeva il
supersonico e scappava a passare il Natale col suo amico George Bush e
Signora, ritiratisi nella casa del Maine, sul mare, dopo il ripiegamento
dell’armata americana dall’Irak. Per capodanno, veniva a
raggiungerli Tony Blair con la moglie. L’unico marito rimasto solo,
era Silvio.
|
Quando
aveva provato a proporre a Veronica l’emigrazione alle Shetland, lei
gli aveva educatamente risposto: Ora
Berlusconi progettava di
impiantare Canale 55 alle Shetland, per far pubblicità alle sue lane e
all’allevamento di border-collie. E aveva iniziato una produzione di
tori Angus, che prometteva bene. Continuava
a indossare il doppiopetto,
ma sotto a quello il kilt, che gli dava un’aria gaelica, sportiva e
quasi guerriera; ma contrariamente all’abitudine locale, e anche per
ragioni di clima e d’età, sotto il kilt portava mutande felpate. Volava
a Roma ogni 2 giugno, nonostante il caldo terribile. Il Premier Wang gli
faceva passare in rassegna uno squadrone di corazzieri, negri e nudi,
montati su dromedari. Ma
se il Presidente Berlusconi se la passava, alla fine, non male, i
suoi ex colleghi e i suoi ex avversari
se la passavano peggio, e molti non se la passavano proprio più.
Prodi
aveva osato una gita in bicicletta sulle colline bolognesi, insieme al
vecchio campione Bugno, ma c’era rimasto secco per un’insolazione. Fini
aveva tentato di salvarsi nel
frigorifero di casa; per qualche minuto, così
aveva incautamente pensato in una notte particolarmente afosa. Ma
il portellone s’era
automaticamente richiuso e all’alba la moglie, Daniela,
lo aveva trovato immobile in una stele di ghiaccio. |
Fassino,
confidando nella propria proverbiale scheletricità, aveva tentato di
passare, nel pieno inverno, la Valle di Susa; ma travolto da una
valanga, di rocce più che di neve,
nonostante l’intervento dei monaci di San Bernardo, accorsi coi
cani per ordine del Papa, era rimasto sepolto. Fu ritrovato l’estate
successiva e portato al Museo di Insbruck, per far coppia in una teca
con la Mummia del Similaun. Schifani
era restato in Sicilia; era uno dei pochi ad essersi salvato, perché
neanche a 45 gradi s’era sciolto. Non li aveva avvertiti, nella sua
straordinaria insensibilità a qualsiasi evento, climatico o politico.
Ora, serviva a tavola i tunisini di Mazara del Vallo, che appena apriva
bocca lo applaudivano, più che per convinzione, per non stare a
sentirlo. Marzano
aveva vinto un concorso all’Università di Uppsala, dov’era
emigrato. Continuava a insegnare che la ripresa economica
immancabilmente sarebbe arrivata nel secondo semestre del prossimo anno.
Bossi
aveva resistito a Ponte di Legno; era solo salito un po’ più su al
ghiacciaio dello Stelvio, a 3000 metri . Il ghiacciaio non c’era più,
ma lui viveva dando egualmente lezioni di sci e snowbord ai padani.
Lezioni più che altro teoriche, con prove su una stesa di paglia.
Resisteva bene, tutto il giorno in canottiera. Ogni anno scendeva a
Pontida, dove il campo famoso era ridotto a palude e teneva un breve
comizio ai pochi palafitticoli, ritornati alla civiltà villanoviana
dalla quale erano partiti. Ma più misteriosa fu la sorte di Massimo D’Alema. Imbarcatosi sulla sua costosa barca, l’Icarus II aveva fatto vela alla volta delle Colonne d’Ercole. Passate le quali, aveva svoltato a destra e a nord, verso il refrigerio. |
Superato il Golfo di Biscaglia, aveva imboccato il
Canale della Manica. E da qui aveva lanciato accorati messaggi
radio verso l’isola di Terma Ness. “Arrivo, aspettami, non puoi
stare senza di me”, telegrafava Massimo al Presidente. Il
capitano dello yacht di Berlusconi
(un rompighiaccio di 100 metri) gli mandava via radio le coordinate per
navigare nel burrascoso Mare del Nord e raggiungere le Shetland. Ma dopo
giorni e settimane di girovagare, l’Icarus si perdette nella nebbia,
tra la Norvegia e la Scozia. “Non ci vedo più” , telefonava
disperato Massimo col VHF. L’Icarus fu visto più volte, come un
fantasma, passare e ripassare sullo Skagerrack e persino nel Golfo di
Finlandia. I marinai svedesi lo chiamavano: “Il vascello fantasma” e
D’Alema era ricordato come il “Flyng communist”. Poi
non se ne seppe più nulla.
** |
L’anno
2005 fu per molti italiani, l’anno delle decisioni. Scomparsa
pressoché totale delle verdure e della frutta, raccolto del
grano ridotto a un terzo, mais a zero; incendi dovunque, foreste ridotte
a meno di un terzo della superficie precedente; l’acqua
potabile razionata in tutte le città, poche ore la settimana,
colonne d’autobotti per salvare gli abitanti del Sud. Energia
elettrica allo stop nei mesi estivi, poca anche nei mesi precedenti. Fermi
per parecchi mesi gli impianti industriali, buie le case, spenti
televisori, computer e frigoriferi: quasi sempre immobili i treni nelle
stazioni. Né
c’era più il tempo per fare ciò che non si era voluto affrontare
anni prima: nuove centrali, impianti di dissalazione, impianti di
depurazione e recupero delle acque, riparazione e rinnovamento degli
acquedotti. Di energia nucleare neanche parlarne, ci sarebbero voluti
sette otto anni per aver le centrali in funzione . E
con tutto questo, le parti politiche continuavano a discutere delle
responsabilità; gli enti locali continuavano a opporsi alle nuove
centrali; il governo guardava con mestizia ai suoi vecchi programmi non
realizzati. Le entrate dello Stato, dirottate , fuorviate,
incontrollate, si aprivano come buie voragini. E fatalmente l’occupazione
diminuiva, sia perché mancavano i mezzi, sia perché la gente si
rifiutava di lavorare nei mesi estivi, sia perché si rendeva conto dell’inanità
del proprio lavoro. Era
iniziata così la grande fuga. L’Italia del
2005, 2006, 2008, ricordava molto l’America della depressione,
di “Furore” , dei carri in fuga verso l’Ovest, che in questo caso
erano rivolti verso Nord. |
Solo
che questa volta non si trattava soltanto della fuga dalla miseria,
della ricerca del lavoro: ma anche e soprattutto della paura fisica, del
rischio ormai certo di lasciarci la vita, e nel modo più orribile, nel
calore e nella carestia. Nelle
città, del Sud ma anche del Nord, nelle campagne, era continuo il rincorrersi del suono delle campane. Suonavano
per chiamare alla processione, o al triduo, o alla novena, per impetrare
la pioggia: ma i fedeli non c’erano quasi più, erano fuggiti. Gli
uomini stupefatti per l’impotenza e l’incapacità della scienza (“ma
come è possibile, nel 2000 morire di sete, o di fame, o di mancanza d’energia:
ora che eravamo giunti ai trapianti, alle clonazioni, alla procreazione
artificiale, ai matrimoni gay!” ) di colpo ritornavano indietro
alle pratiche di cento, mille, duemila anni prima, alle preghiere del
prete, dello sciamano, del mago della pioggia. E le campane continuavano
a suonare, o per la preghiera, o per i morti, o per la chiamata a
raccolta prima di partire. E
come partivano gli italiani? I primi, ancora con gli aerei di linea.
Poi, i più ricchi, con gli aerei privati o noleggiando charter in
gruppi di famiglie. Poi il kerosene aveva cominciato a scarseggiare, gli
aeroporti a razionare i voli, il personale di bordo a disertare per
curare la propria famiglia e organizzare la partenza. Era
inverno, nessuno avrebbe voluto affrontare un’altra estate in Italia. Gli
aerei e le auto erano troppo facilmente controllati dalle guardie di
frontiera dei paesi nordici,
che sparavano senza risparmio e senza complimenti sui poveri italiani
migrantes. “Disgraziati !”, gridavano
sparando all’impazzata. “Non avete voluto sparare sui gommoni che
arrivavano dal Sud, e adesso noi spariamo su di voi, così imparate”. |
Per
cui gli italiani, arrivati al valico, lasciavano auto e ogni altra cosa
e proseguivano a piedi. Una lunga marcia, più simile a quella di
Napoleone in Russia che a quella di Mao in Cina, perché era una marcia
perdente. Lungo
la strada, gli
italiani lasciavano parti, spezzoni, scaglioni di colonna. Qualcuno si
fermò in Austria, qualcuno in Slovacchia: a Brno si sdraiò un gruppo, sfinito, di uomini e di donne. Alcuni
erano attori, altri cantanti, altri normalissimi italiani che sapevano
recitare o cantare. Fondarono un teatro, che fu bene accolto dalla
popolazione slovacca. Ma
il grosso proseguì: come un
popolo di formiche, con determinazione e con metodo. Il popolo si era
scelto dei capi, sulla base dei nomi, evocativi della loro nuova
organizzazione sociale: Capo
Supremo, Roberto Formigoni, per l’aria mosaica e l’aplomb
ascetico-messianico: e per essere il capo del più numeroso popolo di
migrantes, i milanesi.
Il
giorno della partenza da Piazza
del Duomo, dopo la benedizione del vecchio Cardinale Tettamanzi (gli
avevano chiesto di partire con loro, ma lui aveva risposto che ormai era
cotto e tanto valeva andare a stendersi in Sant’Ambrogio fuori le mura
e spirare lì), Il Governatore Formigoni
tenne un conciso discorso, promettendo lacrime, sangue e
castità.
Gli
italiani aggirarono i Carpazi e i monti Tatra, riuscirono a penetrare
nelle paludi polacche. Ai Laghi Masuri, furono affrontati dall’esercito
polacco, che li ridusse a meno della metà. Però riuscirono a sfondare,
grazie a una carica di cavalleria di superstiti cavalieri del Don. tutti
novantenni o centenari, che diedero l’ultimo respiro al grido di : “Avanti
Savoia !” |
A
quel parallelo, l’atmosfera era ormai respirabile. Però palustre e
malsana, talchè quasi tutti proseguirono, per poi arrestarsi, chi a
Danzica, chi a Koenisberg (ma questi solo in omaggio a Kant) chi a Riga
e chi a Tallin. Qui trovarono qualche vecchia che si ricordava del
giovane Montanelli, lettore all’Università, e si sentirono un poco
come a Milano, e perciò si fermarono.
L’ultimo
e più robusto scaglione fu bloccato dai russi, a Zarkoye Zelo, davanti
a Pietroburgo. Il Duce Formigoni ebbe la luminosa idea di telefonare al
suo antico Presidente Berlusconi, nel suo rifugio delle Shetland. “Silvio”,
disse il Gran Lombardo “perdonami se ti disturbo per l’ultima volta.
Ma siamo a Pietroburgo e i russi ci hanno bloccato, con carri e
autoblindo. Dicono che se non torniamo indietro ci sparano. Tu che sei,
o eri, tanto amico di Putin, senti da lui se ci lasciano passare”. Berlusconi
stava in quel momento assistendo al parto di una sua preziosa Collie,
aiutava il veterinario a estrarre il
cucciolo. “Per
te lo farò”, rispose, “questo ed altro. Ma tu devi garantire che i
nostri non si fermeranno a Pietrogrado e passeranno in Camelia”. “Ma
certamente”, gridò contento Formigoni. “Che ce ne frega di vedere
il balletto e l’Ermitage, a noi che
abbiamo lasciato la Scala e Brera, figurati!” Pertanto
il Presidente Silvio telefonò a Putin. Questi da due anni si era fatto
proclamare Zar, col nome di Vladimir I° e aveva reimpiantato la capitale dell’Impero a Pietroburgo, che a sua volta
aveva assunto il nome di Putingrad. Figuriamoci se avrebbe tollerato la presenza dei migrantes italiani a Putingrad! |
La
disposizione di Putin fu di lasciar passare gli italiani, ma non
per la Carelia, sibbene per la regione dei laghi, verso Arcangelsk e la
penisola di Kola. Ottenuto
il consenso, Berlusconi si
stancò presto di ammirare il cucciolo
Collie, e si rivolse alla stalla di tori Angus . “Questi
tori sono sempre e soltanto rossi”, osservò con il tecnico
allevatore. “Non ne potreste fare qualcuno a strisce rosse e nere? Almeno
mi ricorderebbero qualcosa”,
sospirò. “Forse”,
rispose perplesso il veterinario. “Ma ci vorranno molti anni e molti
soldi”. “Sciocchezze”,
scosse le spalle il Presidente. “Quanto agli anni, io sono
notoriamente immortale e quanto ai soldi, come sapete, sono
inesauribile. Dai, createmi un toro nuovo, lo chiameremo Milan. “Gli
italiani avevano ripreso, dietro l’insegna di Formigoni, la lunga,
infinita marcia verso il Nord. Superato
il Lago Ladoga, furono assaliti da turbe immense di zanzare e moscerini,
che da sempre presenti, si erano moltiplicati per via dell’insolita
calura. Molti italiani fecero sosta nei grandi Gulag che
trovavano nella Penisola di Kola; erano stati svuotati degli antichi
prigionieri, ma le baracche di legno avevano resistito. Del resto Putin
le aveva fatte restaurare,
per i ceceni: poi bene o male la guerra cecena si era spenta, per
esaurimento del materiale umano, e ora venivano al momento giusto per
gli stremati italiani. Molti
si fermarono per qualche tempo, altri per tutta la rimanente esistenza;
ma ai più, la squallida visione dei Gulag era insopportabile.
Continuarono dunque ad arrancare lungo la penisola, sulle spiagge
(chiamiamole così) del Mare di Barents, su su per la Novaja Zemlya. |
I
più fortunati, svoltarono a sinistra, verso Capo Nord. E qui, al
confine incrociato fra Russia, Svezia, Finlandia e Norvegia, fecero
finalmente un felice incontro: i Lapponi. “Da
dove venite?” chiese la
Bella Lappone nel suo linguaggio incomprensibile. Era stagionata, ma era
ancora una bionda apprezzabile. “Dall’Italia”. “Oh
bello, quale Italia? Rimini? Io stata Rimini, prima della Grande Calura.
Bellissimo posto, tanto ballare, grandi scopate”. “Beh”, balbettò sospettoso Formigoni. “A quell’epoca
anch’io ero a Rimini, con Comunione e Liberazione. Una notte, una
bionda s’infilò sotto la mia tenda, nel campeggio degli scout, e mi
violentò. Fu allora che perdetti la mia verginità”. “Sei
tu!” , gridò felice la Vichinga. “Mai avrei creduto ritrovarti.
Ora
sei qui, sei mio e scalderai il mio letto”. “E
va bene, è un “fioretto” che si può fare. A patto che ospitiate il
mio povero popolo milanese e lo sfamiate col latte di renna”. Da
allora, vive a Capo Nord una fiorente colonia italo-milanese. Lavora
e commercia in corna di renna, con cui fabbrica bellissimi monili. Ha
monopolizzato la corrispondenza di Babbo Natale, e ne ricava fior di
dollari.Una squadra di esuli modenesi ha cominciato a produrre una
motoslitta col marchio del cavallino rampante, con la quale gli italiani
vincono tutte le gare di formula uno, da Capo Nord fino a Tromsoe. |
Ogni
sera, dopo aver consumato la buona cena a base di latte e bistecca di
renna preparatagli dalla Bella Lappone
e sorseggiato un’ottima
grappa di mirtillo , l’ex Governatore Formigoni intona “O me bela
Madunina“, seguito alla lontana dal coro dei migrantes
della Valtellina. Gli
fa eco la Bella Lappone, che subito attacca: “Romagna mia, Romagna
in fiore- tu sei la vita, tu sei l’amore!”. Ai
due risponde nella notte
boreale, un corale bramito di renne
in calore.
VENERIO
CATTANI |