N A T A L E

 

Racconto

di

Venerio Cattani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Festa di Natale è, indubbiamente,la più bella dell’anno.Han voglia i preti (e anche i rabbini) a dire che la Pasqua è la più importante: la Resurrezione, il Passaggio e cosi’ via. Ma non facciamo confronti. Per i bambini Natale è la più bella, e loro sono i giudici ; perché più tardi, per gli anziani, le feste non sono altro che una infernale rottura.E i regali, e le telefonate, e gli auguri, da dire o da scrivere (una fatica gratuita) e le sfacchinate della settimana bianca, i viaggi sconsiderati in auto sulla neve, o peggio, i voli verso le spiagge tropicali… Per carità, meglio seppellirsi in casa, meglio se al fuoco del camino. Che consente digressioni, ricordi, fantasie…

Mia madre era la protagonista del mio Natale da bambino.Che energia aveva;incredibili le cose che faceva, e tutte bene, al massimo livello. Mia nonna inizialmente la consigliava e l’aiutava; ma le nonne di allora diventavano precocemente vecchie. 

Natale aveva un odore, prima ancora dei sapori.Avevamo stretti parenti, i fratelli della nonna e le loro faniglie, che dopo la prima guerra   mondiale erano “emigrati” a Milano. Questa era allora l’emigrazione: da Reggio, da Ferrara, da Modena, a Milano, la Mecca dell’industria, del commercio. della ricchezza.Avevano fatto,relativamente, fortuna, fondando piccole industrie o con il commercio.

Ma il tacito patto era questo. A Natale, loro mandavano grossi panettoni, Alemagna o Motta, quelli con il Domm de Milan impresso sulla scatolo- na; e le donne reggiane rispondevano riempiendo le stesse scatole di cappelletti e tortellini.

Dio, quante centinaia di cappelletti fabbricavano le mani di mia madre, aiutata lentamente da mia nonna, quante decine e decine di tortellini dolci, sia fritti che al forno,ripieni di marmellata fatta in casa. E  quanto rispetto e amore c’era per i fratelli-zii, fortunati-sfortunati emigranti, in fin dei conti a un’ora e mezzo di treno di distanza, 150 chilometri. Ma, poveretti:” A Milano si mangia male.

E’una grande e buona città,ma vuoi mettere i cappelletti, i passatelli, la “pasta ragia”, il culatello, il lambrusco; e dove li trovano, in quel casino di città. “Rientravo in casa coi”geloni”. I geloni, alle mani e ai piedi e perfino sulla punta delle orecchie, facevano un solletico indomabile, ma allegro. Immediatamente, si andava ad appoggiarli sulla stufa, o al fuoco del camino; e i geloni ingigantivano, diventavano viola, incurabili.

I geloni ce li facevamo giuocando nella neve, quanta neve a Reggio, era inconcepibile un Natale senza neve, ne ricordo forse un Natale su dieci, e che tristezza. Non aveva senso un Natale senza neve. Le battaglie a pallate di neve e ghiaccio, ostia che male quando arrivavano sull’occhio; e la “scivola”. La scivola era la pista di ghiaccio che si formava sul marciapiede o sulla strada (allora non c’era quasi traffico); un piccolo rettilineo di ghiaccio levigato sul quale ci lanciavamo di corsa, e zzz… come razzetti per venti-trenta  metri, con tombola finale sbattendo la faccia o le ginocchia. Che gusto.

I bambini d’oggi,col riscaldamento in casa e le automobili in strada e purtroppo con la neve che non c’è più, almeno nelle città padane,non capiscono neanche a raccontargliela. E’ un mondo diverso, di cinquanta, settanta, cento anni fa.

Il pranzo di Natale, preparato interamente dalla mamma aiutata dalla nonna. I cappelletti in brodo, quanti. Fatti a mano uno ad uno; cento, cinquecento, mille. Quanta sfoglia fatta silenziosamente dalle donne, quanta fatica; ma una fatica fatta in serenità, un “atto dovuto”. Poi il taglio della sfoglia a quadratini, con la rotella, allora d’osso. Poi il ripieno in ogni quadratino, ma un ripieno fatto come si deve, non a casaccio; carne di pollo, di manzo, un niente di maiale.

Infine, la voltatina, l’acrobazia finale per cui da ogni quadrato esce il “cappelletto”, fatto proprio a cappelletto medievale. Con il dietro e la punta davanti, come un berretto universitario. Un esercizio difficilissimo, che mia madre e mia nonna, compivano con sovrana disinvoltura, senza neanche guardare. E sulla cucina “economica”0bolliva il brodo: un brodo che oggi nessun ristorante, è incredibile, vi dà.Brodo di cappone e di manzo, che poi finivanoa loro volta nel bollito, insieme allo zampone e al cotechino, con la salsa verde. E per finire, millesfoglie e spongata,

(la Spongata di Brescello) comperate, queste finalmente, dagli uomini nella vicina pasticceria. C’era anche il panettone degli zii di Milano: “Ma sì, insoma, puvrett, cosa ag’tocca d’magner. Mè in t’ona zitè acsè an gh’ starev gnanc morta, al Gran Milan, che s’al tègnen”.

I regali, i giocattoli di Natale, erano preziosi. Giustamente, ce li davano era per Natale, non per la Befana, in modo che ci potessimo giocare nei giorni di vacanza; per la Befana c’era qualche piccolo supplemento, utile o godereccio. Ma i regali “grossi”(nella modestia di allora) erano per la vigilia di Natale.

Ricordo ancora,per dire, una batteria di artiglieria a cavallo, con i soldati in sella che si potevano tirar giù, regalatami da mia zia.

La nostra non era una famiglia di molti complimenti. Non ricordo di aver mai sentito un ringraziamento a mia madre e a mia nonna, per la fatica che avevano fatto e che oggi nessuna giovane farebbe.

I complimenti, però critici, erano semmai rivolti agli “oggetti”: ostia che cappelletti; la salsa verde è proprio speciale; quello zampone è splendido, peccato che si sia un po’ spaccato nella cottura. Men che mai, ringraziamenti o preghiere al Signore, era una famiglia agnostica, diciamo atea, socialisti un po’ duri. Mia madre mi permetteva di andare all’oratorio, giusto per giocare al pallone, ma zitto, non raccontare queste storie.

Oltrechè da me, l’indifferenza religiosa della famiglia era mitigata da mio zio, che era un melomane e che a Natale o a Pasqua o a San Prospero, andava in Duomo o alla Ghiara, per ascoltare l’organo. Tornava a casa giusto all’ora di pranzo (eravamo tutti molti osservanti dell’orario) e  commentava il concerto. “Bravo il Maestro Mammoli”, raccontava, “tutta la Messa del Pergolesi suonata perfettamente. E che bell’organo”.

L’albero di Natale, quello sì, forse perché un po’ pagano. Ogni anno pigliava fuoco con le candeline e mia mdre correva a spegnerlo con la caraffa dell’acqua.

E poi si lasciava la tavola guarnita, sia la notte dei Natale che la notte dell’Epifania; perché deve passare il Bambino, perché deve passare la Befana. Io mi alzavo nel pieno della notte; non tanto per vedere il Bambino o la Befana, ma per far fuori qualche altro tortellino dolce dalle zuppiere, a costo di sottrarlo sia all’uno che all’altra: tanto loro che se ne fanno ?

 

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La mattina del 1° dicembre, un lunedì, Babbo Natale cominciò ad aprire la posta. Gli scrivevano bambini da tutto io mondo, ma anche anziani e perfino vecchi. Lo coadiuvavano nella lettura la figlia Natalìa e i nipoti Natalino e Natalina. La moglie, Mamma Neve, che tanti secoli gli era stata al fianco per aprirgli le lettere, da qualche tempo non c’era più. Babbo Natale ogni tanto se ne ricordava, gli arrivavano le lacrime a bagnargli gli occhiali, lui per un po’ tirava su col naso, poi si decideva ad estrarre il fazzolettone, rosso a scacchi e si dava delle gran soffiate di naso: brrr, prrr, trrr, ciofciof.

Babbo Natale era fisicamente proprio come viene rappresentato, più o meno. In casa, nelle ore di lavoro, non portava la bella casacca rossa con gli alamari d’oro, che indossava quando usciva

con le sue renne; ma una semplice calda giacca da casa, di un rosso coupon, la cintura con le nappe, due comode pantofole imbottite, in testa l’abituale berrettone frigio, rosso-cardinale con il fiocco bianco.

La grande casa , in pietra,il tetto di ardesia, si trovava esattamente sul Circolo Polare Artico, ed era quasi eternamente contornata dal ghiaccio. La famigliola lavorava in una grande sala, con un enorme camino e  una lunghissima tavola da lavoro. Da un capo, i quattro Natali leggevano; dall’altro, una schiera di gnomi eseguiva gli ordini, preparava e incartava i pacchi, correva continuamente al magazzino a  prendere i doni, poi a caricarli sulle carrozze. Vicino, ancora non bardate e slegate, pascolavano le renne; mangiavano licheni e radici, bevevano acqua zuccherata, perché sapevano che da lì a poco avrebbero dovuto  partire per lunghi e ripetuti viaggi.

Babbo Natale scorreva rapidamente le lettere e pronunciava una o poche parole: “Mazza, guantone e palla da basebal; maglia della Juve, scarpette, parastinchi e pallone n.5; un paio di sci da fondo; un  paio di sci da discesa, Rossignol; un cane-robot giapponese, che brutto, ma se piace a lui ….” Lo aiutava il nipote Natalino: “Nonno, che cosa è il Cubo di Rubrik? Poi,un mappamondo illuminato.

Oh, bravo questo, vuole un cane vero, un bassotto, perché dice che in casa non c’è molto spazio. Poi una divisa da moschettirere per il prossimo Carnevale”.

Dall’altra parte del tavolo, Natalìa e Natalina si occupavano delle femmine. “Una Barbie con tutti gli ammennicoli possibili e immaginabili; una biciclettina con le ruotine per imparare; oh, questa vuole un fratellino, ma noi non possiamo farci niente...”

“Faremo così”, propose Babbo Natale. “Porterò giù al suo papà una scatola di preservativi bucati e alla sua mamma una scatola di pillole false con effetto placebo, ah,ah!”

“Nonno”, esclamò Natalino, molto eccitato. “Questo qui domanda una confezione di Estasi!” 

“Disgraziati,non pensano ad altro, i tuoi colleghi ragazzini! Che dico, già da bambini! Facciamo così :gli confezioniamo una bella scatola, ma molto tenebrosa, misteriosa, con su scritto Estasi, e scritte allucinanti al catarifrangente, che so, scrivici: grandi emozioni, acrobazie dello spirito, il volo senza ali, e altre simili cretinerie. E poi fabbrichiamo pasticche di zucchero translucide, ma non troppo dolci, mettiamoci anche del sale e della cannella.

E speriamo per stavolta di fregarli così“ “Eh!”, interruppe Natalìa, come impaurita o stupefatta. “Ascoltate questa. Caro Babbo Natale. Ti scrivo da Betlemme e mi chiamo Ahmed. Mi rivolgo a te anche se sono mussulmano, tanto tu sei interreligioso. Ho dodici anni e voglio diventare Martire di Allah.

Siamo una famiglia di Martiri, chissà, forse per vocazione. I miei due fratelli maggiori si sono già fatti saltare: uno su un bus a Tel Aviv, ha ammazzato una ventina di scolari ebrei, l’altro all’ ingresso di un kibbutz, nel deserto, ha ammazzato solo un paio di soldati. Siamo rimasti io e la mia sorellina minore. Io sono nella lista dei Martiri, ma il Mullah dice che ancora non è venuto il mio tempo, perché sono troppo piccolo: e non vogliono consegnarmi la cintura esplosiva. Anzi, l’altro giorno mi hanno preso in giro: mi hanno dato la cintura, ma dentro le sacche c’erano zibibbo e datteri. Perciò ti prego: per Natale, che come sai a Betlemme è un giorno di festa per tutti, cristiani,ebrei e mussulmani, tanto Gesù era una specie di profeta anche per noi, mandami una bella cintura di seta nera, piena zeppa di tritolo. I pallettoni, i bulloni e i chiodi ce li aggiungiamo io e mia sorella. Ti saluto nel nome di Allah, grande e misericordioso”.

“Sventurati!”, gridò Babbo Natale”. Poveri bambini educati alla morte! Che posso fare per loro? Se gli mando una finta cintura con finto tritolo, diranno che anch’io li ho derisi e disprezzati; ma certo non gli manderò del tritolo vero!”

“Cambiamo completamente  il discorso”, propose Natalìa. “Scrivi”, disse rivolta a Natalina. “Caro Ahmed.La tua richiesta è oscena e non posso prenderla in considerazione. Ti mando una cornamusa, una zampogna automatica. Tu gli dai fiato e lei ti suona da sola:

Tu scendi dalle stelle, o Dio del Cieeelo e vieni sslla Terra al freddo e al geeelo!”  

“Un trenino, rotaie e stazione...” riprese Natale. “Una fisarmonica;

scatola di colori, pastelli, tavolozza, carta da disegno, queste sono domande serie!”

“Capitano tutte a me!”, interruppe ancora Natalìa, commossa. “Sentite  un po’. Caro Babbo Natale. Sono una bambina,albanese. Il fatto solo che io sia albanese dovrebbe metterti sull’avvertita.

Infatti, ora sono in Italia. Mio padre mi ha venduto per tre milioni a un delinquente, che mi ha portato qui e mi ha rivenduto a due vecchi italiani, per dieci milioni, o come dicono loro, cinquemila Euro. I due, poveretti, fanno quel che possono, a loro modo mi vogliono bene, anzi mi assillano con le loro preoccupazioni, domande, problemi. Ma io sono stanca, e voglio rivedere mia madre. Ti prego, mandami un biglietto di sola andata ,in aereo, per Tirana; al resto ci  penso io.”

“Mi pare  molto giusto”, disse Babbo Natale.” Preparale subito il biglietto e faglielo avere”. “Oh, sentita questa”, esclamò a gran voce Natalino.

“Sono un bambino indiano. Mio padre mi ha costretto a vendere un rene. Mi ha persuaso, perché la mia famiglia non ce la faceva più, siamo poverissimi, i miei fratellini stavano morendo di fame. E va bene, gli ho detto. A patto che tu e la mamma la smettiate di fare altri fratellini che non potete mantenere. Si è detto d’accordo ma dubito che manterrà la parola. Quando torna a casa ubriaco di birra non è capace di controllarsi, io lo so. La mia preghiera è questa: trovami un rene. Da quando ho perso il mio, sto male, e sempre peggio; non so quanto resisterò. Regalami un rene e se puoi, fai presto. “E come faccio?”, gridò Babbo Natale. Dove lo trovo un rene? Gliene  darei uno mio, ma i miei son vecchi, quasi non servono più neanche a me, avrei bisogno della dialisi, se non fossimo al Circolo Polare Artico, dove non ci sono cliniche attrezzate...

 Facciamo così: lo prenderemo a una renna”.

“Nooo!”, si misero a strillare Natalino e Natalina. A una renna no, non fatele male, è un delitto!”. “Lo so,ma con questi pazzi di uomini, cosa vuoi fare... Loro lo fanno con i maiali, noi lo faremo con la renna”. Rispose Natale e poi riprese: “Questo è collettivo, undici magliette Milan, scarpette, braghette bianche, calzettoni. Automobilina elettrica, accidenti, questi non si accontentano più delle automobiline a pedali !”

S’interruppe, si levò gli occhiali e mormorò:

”Gesù, sentite questa… Natalìa, non so se posso leggerla davanti ai bambini”.

“Dai, Babbo, i bambini d’oggi sono preparati a qualsiasi cosa, leggi pure, anzi è bene che sappiano tutto. “Babbo Natale riprese:

“Sono un embrione. (Gesù , ma come ha fatto a scrivere, va bene che sono diventati precoci…) Sono un embrione. Sto in una provetta, al gelo. Voglio uscire, ma ho il terrore. Quasi certamente,  mi butteranno nel ventre di una vecchia matta, ossessionata dall’idea di avere un figlio a cinquant’anni, un marito completamente   rincoglionito. Tanti miei colleghi sono finiti così, molti sono già orfani di madre o di padre o di ambedue. Perciò ti prego:fammi atterrare nel buco giusto. Vorrei una mamma sui trent’anni e un padre non più di quaranta. Lo so che non dipende da te; ma ho un’idea. Qui c’è una bella infermiera, che manovra continuamente provette e siringhe. La notte di Natale, se passi di qui, falle venire l’ispirazione, magari infilagliela tu….”

“Oh, ben ben ben che robba!”, Natale buttò in aria il foglietto. Poi lo raccolse e disse: “Mah, però , sarebbe un’esperienza nuova...”

Ricominciò. “Una bicicletta, un kalaschnikov (questo no, Santa Madonna!) un vestito da Zorro per il prossimo Carnevale... “Questa”interruppe Natalìa” è di una bambina clonata. E’ la prima volta che mi capita. Senti un po’ (rivolta al padre). “Sono uguale a mia sorella morta. Quando morì, mia madre disperata ne fece staccare delle cellule staminali e, a quel che racconta, da quelle sono nata io. Ma io voglio essere io e non la ripetizione di mia sorella. Mia sorella era buona? E io voglio essere cattiva. Mia sorella era studiosa? E io voglio essere ignorante. Era elegante? E io sarò sciamannona. Ma voglio anche essere diversa fisicamente.

Mandami una parrucca di capelli neri e lisci: mia sorella li aveva biondi e ricci. Due sopracciglia, in tinta. E un bel neo, per la guancia, di raso nero. E anche qualche piccola voglia, per esempio di fragola, sul ventre. Grazie.”

“Che mondo!”, brontolò fra l’agitato e lo sconsolato, Natale. Che schifo! Che regali di merda! Basta, l’anno prossimo smetto. Vado in pensione, ho più che raggiunto l’età e gli anni di contributi. Basta,

chiudo bottega”. 

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Quando ero Sottosegretario all’Agricoltura ero molto amico dei Forestali e loro divennero buoni amici  miei.

Ho imparato (tardi) a sciare con loro, nella casermetta del Terminillo, in un lontano Natale. E hanno insegnato a mio figlio, che quindi cominciò bene.

I Forestali di allora erano dei tecnici, ma si ritenevano ed erano, anche un Corpo di Polizia. I dirigenti erano laureati in agraria, per lo più a Firenze, che è la sola (credo) Facoltà specializzata in forestale ed ha in  Vallombrosa una bella sede estiva nella villa che fu abitata da Milton, il poeta inglese che lì scrisse “Il Paradiso perduto”.

Ma i dottori tenevano a farsi chiamare con il grado corrispondente, capitano, colonnello, fino a generale. In campagna erano spesso in divisa e gli agenti della Forestale si comportavano,in pratica, come soldati.

Risentivano, evidentemente,della loro formazione, che era fascista.

Niente di male, in questo. Nel 1927, Mussolini volle creare una specie di corpo di rangers e lo piazzò all’interno della Milizia. L’idea dei rangers era buona, quella della Milizia meno.Mussolini era così: spesso aveva delle idee buone, e moderne, eppoi le distorceva con le sue invenzioni propagandistiche.

Così, nonostante la sua distorsione politica, la Forestale fu una invenzione positiva e fece cose buone. In verità, fu quello il solo periodo dell’Italia unita in cui ci fu un piano di riforestazione di lunga scadenza.

Purtroppo, questa eredità fascista e questo istinto militare della Forestale, la indussero in  un brutto guaio. La Scuola di Città Ducale era comandata da un colonnello che avevo conosciuto e che era un’ottima persona, ma era deviato da questa mania fascio-militare.

Quando Junio Valerio Borghese (l’ex comandante della X MAS ed ex medaglia d’oro, ma completamente rincoglionito)  tentò il noto “golpe” (nel ’74 se ricordo bene) il colonnello si lasciò persuadere a condurre un nucleo di armati, in buona parte forestali ignari di quel che facevano, a marciare su Roma in autobus per occupare… la RAI-TV di viale Mazzini. Il golpe di Borghese finì (come quasi tutto in Italia) in operetta, l’ingenuo colonnello finì in carcere con una brutta condanna e vi morì. La Forestale la pagò duramente come immagine e come credito. 

Ma in quegli anni, 64-65, con la Forestale mi trovai bene: al Terminillo, a Vallombrosa, a Macugnaga. Nel Natale di  Macugnaga, ricordo che feci tutto il Monte Moro con la schiena, che è una bella discesa. Non so per quale fortuna schivai senza nemmeno vederle delle rocce sporgenti, che quando le rividi dall’impiedi strabuzzai gli occhi per l’orrore. Il maestro di sci e la guardia forestale che mi seguivano, zigzagavano come folletti per tentare di prendermi al volo, ma non ci riuscivano. La mia discesa finì, dopo centinaia di metri, in una fortunata contropendenza. Gli sci erano finiti a pezzi, ma ero salvo, e nemmeno ammaccato.

Spero che la Devolution non spezzi la Forestale con le Regioni. Sarebbe la fine della Forestale ma anche delle Foreste. E un Natale senza foreste e senza neve, per me non sarebbe più un Natale, anche se da tempo ho rinunciato definitivamente a discendere le montagne con gli sci e con la schiena, con la Forestale e senza.

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