POLICARPO SCRITTURALE MARONIZZATO (racconto
fantapolitico) di VENERIO
CATTANI
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Policarpo, Ufficiale di Scrittura, si alzò lentamente sulla sponda del letto. Prese dal comodino il campanelllino dorato, che aveva lui stesso donato alla moglie Ersilia, proprio prima che morisse, affinché potesse chiamarlo dal suo letto di dolore. Suonò,
delicatamente ma con insistenza: e subito accorsero Anja, la servente
albanese e Magda, la
badante somala. La prima, giovanissima, era di una bellezza esagerata. Era pagata dalla Caritas diocesana, con i soldi che la Curia riceveva dal Fondo Europeo per l’assistenza famigliare. Tuttavia la sera Anja, ragazza sveglia, arrotondava lo stipendio vendendo cocaina in discoteca. La seconda donna era assai più matura, ma di una bellezza somala, alta, austera, una statua d’ebano; a dire il vero, era la preferita di Policarpo. Magda era stipendiata dall’ASL, secondo il piano Sirchia per l’assistenza ai vecchi, varato dopo la catastrofica annata 2003, l’estate della grande morìa. Tutti gli anziani oltre i 70 avevano ora diritto all’installazione dell’aria condizionata e alla badante. Magda
non sapeva cucinare; ma a questo provvedeva il Servizio Catering per gli
anziani, finanziato dal Comune. Più che altro Magda rifaceva il letto,
anche perché aveva notevolmente contribuito a scomporlo durante la
notte. Policarpo
era un funzionario statale Renitente alla Pensione. Vi aveva rinunciato
dieci anni prima, e da allora riceveva il 35 per cento in più dello
stipendio. Era passato d’improvviso dai due milioni e mezzo ai quasi
quattro, e si sentiva un dio. Era ringiovanito ed era decisissimo a
durare almeno fino ai 90 anni. Per
i suoi rapporti alternati con Magda e con Anja, non aveva problemi. L’ASL
gli passava gratuitamente il Viagra, in quantità illimitata, e lui
sapeva farne buon uso. |
Sotto
la doccia, si lasciò massaggiare piacevolmente, da Magda davanti e da
Anja di dietro. Le due lo aiutarono anche a vestirsi; mutande pulite e
pantaloni stirati, scarpe lucide. Sarebbe
arrivato tardi al Ministero, ma la colpa non era sua. I tram che doveva
prendere, per i quali non pagava il biglietto, erano guidati da
tranvieri ottantenni,
semiciechi, affetti da “macula senilis”, anch’essi renitenti alla
pensione. Facevano turni settimanali di quattro ore
e viaggiavano assorti alla velocità di cinque chilometri
l’ora. I
viaggiatori erano più o meno della stessa età. I più giovani erano
serventi o badanti di colore, che costituivano infatti la maggioranza
della popolazione attiva. Nel tram si udiva un parlottare
incomprensibile, tra il filippino e l’arabo, gutturale. Solo il
tranviere urlava di tanto in tanto in romanesco il nome della fermata:
“Er Quarticciolo! L’Arberone! Cinecittà! Capolinea, svejateve,
arimbambiti!” Policarpo
entrò, per la milionesima volta nella sua vita,
nell’androne del Ministero. Era pulito, ma con un acre odore di
muffa e, sarvognuno, di acido muriatico, perché i vecchi impiegati
sofferenti di prostata spesso
non riuscivano a raggiungere i
gabinetti. “Sor
Policà, siete ‘na maravija. Mejo de quanno c’era la vostra povera
signora Ersilia, che il Signore l’arimeriti”, lo salutò il
portiere, amico da quarant’anni. “E
te credo”, pensò tra sé Policarpo. “Mica l’Ersilia mi faceva gli
esercizi ginnici che mi fanno fare la somala e l’albanese”. Anche
il Brigadiere della Guardia di Finanza, di picchetto al portone, era una
sua antica conoscenza. Teneva al guinzaglio, molto teneramente, il suo
pastore tedesco, di vent’anni, ancora vivace e ben portante, ma
tossicchiante e incimurrito, che s’alzò per andare ad odorare
Policarpo, suo vecchio amico.
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“Policà”,
disse il Brigadiere, portandosi la mano alla visiera.
“Quanno annamo a fa la solita partita a bijardo, ar baretto del
sor Vicienzo. NNnamoce presto, che tra un po’ nun ce vedo più, perdo
un grado de vista la settimana”. “Meno
male pe’ te che c’hai er pastore tedesco”, rise Policarpo. “Ragionier
Policarpo, site nu’ babbà” , gli sorrise il capufficio, un
napoletano ottantaquattrenne, allegro e azzimato, coi capelli e i
baffetti pittati nero-corvini. “Viva Bossi e viva Maroni. Credevano di
farcela, a nuje, sti nordici malavitosi; nun sapevano che nui statale
simme immarcescibbili, nisciuno ce l’ha mai messo in t’o sacco, né
Mussolini, né Togliatti, né Berluscone; figuratevi ‘a riforma d’e
pensione!” Poi
aggiunse: “Al lavoro,
ragioniere! Tirate fuori la vostra bella penna stilografica Monteblanch,
con la quale fate miracoli, con l’inchiostro rosso e blu. Altro che
‘sta fetenzìa ‘e macchine che c’ha mandato ‘o ministro Stanca,
‘o computèrre, tiè (sputò sopra un
Mac Intosh avvolto nel cellofane, del valore di venti milioni) che nuje
tenimme ben’ imballate, tutte da scartare!” Policarpo
si aggiustò, senza fretta, le mezze maniche nere sulle braccia.
Estrasse dal cassetto una sfilata si potrebbe dire storica di penne:
stilografica, col soffietto, con la cartuccia, col pennino d’oro; poi
penne ad asticciuola, col pennino d’acciaio,
classiche, a punta, a torre Eiffel, poi penne a sfera, a pennarello; poi
un lapis col temperamatite a figura di porcellino, che
s’infilava la matita per il dietro; un altro temperamatite a figura di
femmina nuda, in argento, che s’infilava il lapis per davanti. E
persino una penna d’oca, bellissima, a cui aveva fatto la punta
Quintino Sella appena giunto a Roma come ministro delle Finanze. |
“Che
meraviglia!” , commentavano i colleghi, raccolti intorno in
venerazione. I più giovani colleghi avevano sessant’otto anni, era
l’ultima leva. I
giovani non esistevano, almeno in quegli uffici. Per lo più erano
co-co-co; precari; part-time. Tutti i giovani ormai lavoravano in nero,
e anche per questo non si vedevano. Si stavano battendo per ottenere
anche loro il 35 per cento in più, togliendolo ai contributi
previdenziali e mutualistici. “Ma
che ce frega della pensione INPS! Ormai non riescono neanche più a
pagare il loro personale. Hanno svenduto l’immenso patrimonio
immobiliare per quattro euro, peggio che l’Alfa e la SME. Meglio
pochi, maledetti e subito!”, gridava un capo sindacalista nel cortile,
dove aveva convocato un comizio per i giovani impiegati. Erano poche
diecine, malvestiti e ammalazzati, tossivano e sputavano sangue, erano
pallidi e smunti. “Vogliamo
gli stessi soldi che prendono i nostri nonni!” gridavano, con voce
roca e fievole. Qualche sposa relativamente giovane arrivava di volata,
col pupo in braccio. Si denudava un seno e gli dava il latte. Nutrito il
pupo, lo affidava alla collega settantenne più vicina , timbrava il
cartellino e scappava per il secondo lavoro.
“Vai tranquilla, cor’e mamma, fija bbella, che tanto a lavorà
per la finanziera dell’anno prossimo ce pensa Stanca, prodigio de la
tecnologia, che fa tic cor dito indice, e gli vengono fori in fila tutti
gli zeri der Bilancio, in rosso!”. Così la benedisse l’anziana
collega, spupazzando il pargolo. In
verità, gli unici uffici del ministero che ancora funzionavano, erano
due: l’Ufficio Affari di Cuore, per i cardiopatici e l’Ufficio
Alzheimer. Al primo ricorreva a turno, quasi tutto il personale. Gli
impiegati salivano al quinto piano con l’ascensore, che però quasi
sempre era o rotto o fermo per black out. In tali casi, gli impiegati si
buttavano a bocca aperta sulle bombole d’ossigeno e succhiavano aria
avidamente, per quanto potevano. |
L’Ufficio
Alzheimer ogni mattina provvedeva a prelevare gli impiegati con apposito
bus e a riportarli a domicilio la sera: bisognava evitare che i colpiti
dal terribile morbo, sempre più numerosi, si smarrissero per le strade
di Roma. Mano
mano che si svuotavano, le porte degli
uffici venivano murate. Quando c’era qualche cambiamento e si
smuravano, sempre si trovava qualche mucchietto d’ossa, residuo di
impiegato renitente alla pensione, murato vivo senza avvedersene.
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Policarpo,
Ufficiale di scrittura, aveva frattanto scritto su pergamena, in
bellissima calligrafia, corsivo inglese: “Ministero de la Riforma
Burrocratica, Anno Decimoterzo della II Repubblica, Pontifex Berlusconi,
Vicarius Bossi, Sacerdos De Maronibus. Lex Reformatio in pejus Pensionae
et Pensionatorum, ad majorem Dei Gloriam. “Era l’articolato della
Legge, in bella calligrafia, da mettere nell’archivio. Il capufficio
aveva già proposto al ministro che fosse riprodotta in bronzo, “aere
perennius” , esposta nella facciata del palazzo e così tramandata ai
posteri. Quando
il Capufficio alzò il cartiglio, perché tutti lo potessero ammirare,
si levò un convinto applauso, anzi, in linguaggio buromoderno, una “
standing ovation”. Standing relativamente, perché nessuno dei
presenti riusciva a stare in piedi più di dieci secondi. Chi faceva una
rapida iniezione alla vicina impiegata, nella natica
sinistra; chi s’infilava velocemente una supposta di adrenalina; chi sussurrava all’amico: “E’
l’ora del Viagra; oggi ne prendo doppia dose, devo cominciare un’ora
prima per essere pronto al salto”.
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Il
Capufficio, salito sul tavolo, proclamò: “Basta, per oggi abbiamo
lavorato troppo. Ora, prima di separarci, recitiamo l’orazione
serale.” E attaccò: “Pater Berlusconi, qui es in Quirinali, santificetur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua, etcetera etcetera”. Poi
aggiunse: “Non possiamo dimenticare il nostro benefattore e Santo
Patrono, Roberto De Maronibus, al quale dobbiamo se siamo ancora qui e
non ai giardinetti con le reclute e le servette, al servizio dello
Stato, che non è mai Stato così Stato come da quando c’è questo
Stato”. E
recitò: “Gloria Patri Silvio et Filio Umberto Bossi et Spiritui
Sancti De Maromibus, sicut erat in principio et nunc et sempre in
saecula saeculorum, amen. Datevi un segno di pace”. Qui
la faccenda si complicò. Il Capufficio baciò la bella dottoressa
Aliquò,
la più giovane, ancora in attesa dell’aumento del Terzo, aveva solo
59 anni; e le lasciò sulle guance il nero seppia dei baffetti e dei
capelli. A sua volta, lei baciò il baldo ragionier Policarpo, che
ricambiò calorosamente, peraltro allungando la mano morta
sull’avvenente settantenne signora Del Balzo. Ma il di lei
consorte-collega se n’accorse e assestò una bacchettata col righello
sulla mano di Policarpo, tale da metterlo fuori combattimento per il suo
lavoro amanuense per due settimane almeno. Policarpo
riprese il tram, dolente e meno baldo che al mattino. “Ragioniè,
me sembrate un po’ moscio”, salutò il tranviere. “Er lavoro”, rispose Policarpo. “Tu non sai er lavoro che ancora ci tocca de fà. “E che sarà mai”, dubitò il tranviere. “Noi piuttosto a guidà ste carrette, che nun ce cambiano mai perché nun c’è ‘na lira”. “Guardate la mia mano”, gli mostrò Policarpo. |
“E’ gonfia e sfatta per il lavoro, alla mia età a scrivere tra le
11 e mezzogiorno, co’ sto terribile caldo!” Quando
infilò la chiave nella toppa, come ogni sera si ricordò della povera
Ersilia. “Ersì, che peccato che nun ce sei più. Proprio adesso che
potremmo campare da signori, grazie alla Riforma De Maronibus!” Gli
spuntò la solita lacrima;
ma come sempre venne sopraffatto dall’accoglienza di Anja e Magda. Lo
aspettavano ogni sera perché portava immancabilmente
un regalino, un dolcino, un gelatino, due fiorellini; era un
vecchio adorabile signore. Ora
Policarpo attendeva la nuova Legge di Riforma della Pensione di
Reversibilità, che la Camera e il Senato delle Regioni avrebbero votato
a giorni. Era previsto che la reversibilità sarebbe stata destinata
anche alle coppie di fatto, e anche alle triplette, com’era il caso
suo, e del resto anche alle quattro mogli dei mussulmani. “Brave”,
disse baciandole in un colpo solo tutt’e due. “Ma non sciupatemi
troppo, vi conviene farmi morire solo quando sarà approvata la Legge.
De Maronibus ci sta lavorando attivamente e certamente avrà il consenso
sociale sia dell’on. Grillini che di Don Giussani, sia dell’Arcigay
che delle Opere. C’è solo da accordarsi su un piccolo emendamento a
favore delle suore di clausura”.
Lontano, al Ministero del tesoro, il ministro Tremonti era al
telefono col Presidente. “Ho
qui le ultime statistiche”, disse con voce preoccupata. “Un’ ora
di lavoro in Italia costa mille volte più che in Cina, cinquanta volte
più che in Giappone, cento volte più che in India. L’INPS è saltato
in aria, perché non riceve più i contributi, né dei giovani nè dei
vecchi. Il debito pubblico è arrivato a dieci milioni di bilioni di
trilioni di vecchie lire. Dobbiamo assolutamente approntare la Riforma
delle Riforme delle Riforme”. |
“Su
con la vita; un po’ di ottimismo, che diamine!”, rispose il
Presidente. “Domani arriva a Porto Rotondo sul suo yacht atomico a
vela il Presidente dello Sri Lanka. Sono occupatissimo a preparargli in
giardino fuochi di Bengala, elefanti in marmo di Carrara, tigri di
peluche a grandezza naturale. Ho ordinato ai cuochi una splendida cena
indiana, filetti di cobra al curry; voglio che si trovi come a casa sua,
è un caro amico. Ma
soprattutto, non voglio che veda musi lunghi, che ascolti discorsi
malinconici e profezie di sciagura. Voglio che lo Sri Lanka entri
nell’Unione Europea, se lo merita. Anzi, già che mi ci fai pensare,
gli proporrò il Piano Marshall delle Pensioni. L’Italia verserà nel
Piano tutto il suo debito pubblico. E’ un’idea, buttami
giù qualche cifra”.
(pubblicato sul quotidiano “Avanti !”, 6 settermbre 2003) |