REGGIO
Che bella cittadina era Reggio, nel 1912. Cittadina: una città giusta, di dimensioni umane. La
si poteva attraversare tutta in mezz’ora, a piedi, da una parte o dall’altra del
quadrilatero. Aveva infatti la struttura dell’antica città romana, col cardo e il
decumano. I
vecchi ci stavano benissimo; i giovani, si
sa, stan bene dappertutto. Ma gli anziani potevano fare tutto il percorso della via
Emilia, da San Pietro a Santo Stefano, quasi tutto sotto i portici. Oppure fare intorno
alla città, il giro delle Mura, un buon quattro chilometri, la misura perfetta per il
cuore. Le
Mura medievali non c’erano più. Non s’erano salvate dalla Rivoluzione Francese, come
invece quelle dell’Emilia del Papa, Bologna, Ferrara, Ravenna. I reggiani, sempre
rivoluzionari, sempre i primi a correre verso la modernità, le avevano atterrate e sui
ruderi ci avevano piazzato l’Albero della Libertà e il loro nuovissimo tricolore, verde, bianco e rosso a
strisce orizzontali, d’imitazione francese. Erano andati perfino a far la guerra a
Montechiaru- golo, contro gli austriaci, per i napoleonici, guarda un po’. Bella città questa, col mare e il sole e l’Etna davanti;
bravis- sima gente, intendiamoci, ma
arrivata un po’ tardi. Era opportuno aspettare per dare un giudizio, lavoravano poco e
portavano il coltello in saccoccia. Non facciamo confusioni.
Regium
Lepidi, di Lepido come la Via Emilia. Peccato che adesso non si potesse più chiamare
così, non l’avrebbero ca- pita. I suoi titoli stavano
scritti sulle lapidi romane: S.P.Q.R, come Roma. “Stat
regensium fides nulla sun aevo interitura”: una fede im- marcescibile, è scritto sul
Broletto. I nemici o concorrenti, modenesi, parmigiani, sfottevano: “Tsè, fedeli perché han la testa quadra”. Effettivamente, i reggiani sono prevalentemente
brachicefali, teste quadre. “Quadre
perché il bordo ve l’ hanno mangiate i pidocchi, sennò sarebbero tonde come le nostre”, gli dicevano i
parmigiani. “Quadre
perché in guerra ve le abbiamo spiattonate noi con lo spadone, ai tempi della Secchia
Rapita”, gli dicevano i mo- denesi. Nei
confronti dei “cugini”di là dall’Enza e di là dal Secchia, i reggiani soffrivano
non poco il complesso d’inferiorità; per- chè Modena e Parma erano state capitali di
Ducato, perché avevano l’Università e ai reggiani I
vecchi si nutrivano di queste discussioni, si divertivano a sfottere i cugini, anche con
roba forte, tassoniana, come: Un
tempo i giovanotti si tiravano i sassi, di qua e di là dal fiume; adesso s’erano
acquietati, perché avevano provato una nuova forma di guerra: la politica. E le vecchie
storie fra le città emiliane erano andate in disuso. A
parte la politica, dove ora erano tutti d’accordo (Sùciales- ta), la rivalità s’era
trasferita nei teatri, bellissimi. Il Regio, il Municipale, lo Storchi. Che
opere, che cantanti: e che mangiate. Quando
c’era l’Opera a Reggio, alle nove di sera, all’intervallo del primo atto,
cominciava la sfilata. I camerieri si muove- vano a passo di corsa dai ristoranti, verso il
Municipale. Per i nobili (allora c’erano davvero) arrivavano da casa i camerieri in
livrea. Correvano con le guantiere calde, coi cappelletti e il gnocco fritto e magari i
ciccioli e lo zampone. Miracoli di equilibrio per non far cadere il vassoio, e guai se
arrivava freddo. Dietro
ogni palchetto del Teatro, c’era il suo camerino, arredato con due mobili, ma d’antiquariato, uno
stipetto, le
I
signori mangiavano o piluccavano lì. Nell’intervallo prima dell’ultimo atto, c’era
anche qualcuno che ci scopava: gran- fatica
con abiti da sera e corsetti e guepieres, ma che soddisfazione. PQM, per questi motivi,
direbbe il giudice, i reggiani preferivano Wagner a
Verdi, perché era più lungo e nemmeno ci andavano per Mascagni e Leoncavallo, troppo
corti. Abitudini borghesi o nobiliari, direte voi. Nossignori, anche i proletari più civili e azzimati, mangiavano e scopavano, spe- cie al Veglione di Carnevale, gran ballo à cotillons. Per non contare le strette che si davano in galleria e nel loggione, che ogni tanto un “Ohi, bada che mi fai male!” distraeva dall’as- colto di Sigfrido o delle Valkirie. Insomma,
era un bel vivere a Reggio nel 1912. Le strade silenziose, con l’acciottolato di fiume
(sassi del fiume o torrente Crostolo) che diventava fragoroso sotto le ruote ferrate
delle carrozze; le chiese con le statuone di San Prospero e San Venerio, e i Santi
Grisante e Daria, martiri romani; i portici poveri ma belli della Trinità. Non c’era
ancora la GalleriaParmeggiani e val la pena di raccontare chi era Luigi Parmeggiani, perché
rientra a buon diritto in questa storia di socialisti. Parmeggiani era un anarchico. Era nemico giurato di Prampo- lini. Era svelto di mano e di coltello. Era stato condannato per una bagattella con la polizia, qual- che coltellata al brigadiere. Dopo poco se n’era andato a Parigi, ed era finito nella Banda Bonnot. Quelli sì ch’erano anarchici decisi: rapinavano per la causa, poi andavano nei bistrot e nei baltabarin di Montmartre, al Lapin Agile e al Tertre, a dividersi le grisbi e l’absynte. Un
brutto giorno, Parmeggiani tornò a Reggio, con un collega, Vittorio Pini, deciso a far
fuori Camillo Prampo lini. Prima passarono da Mirandola, dove accoltellarono il Sindaco
del paese, Ceretti. Poi passarono a Reggio, dove aspettarono Camillo presso la redazione
della Giustizia, in via Sant’Ago- stino. Bisogna
sapere che il pugnale da anarchico (ma anche
degli assassini comuni) aveva allora una “rosa”, prima dell’impu- gnatura, che si poteva graduare secondo la ferita che si aveva intenzione
di fare. Per
il Cerretti il coltello era stato graduato (e per questo s’era salvato) ma per Camillo
la rosa non era stata messa, per ammazzarlo sicuramente. Ma Prampolini era (allora)
fortuna- to. La polizia, non avendolo trovato aveva avvertito il suo medico Marzocchi,
affinché lo cercasse per dirgli che c’erano due tipi strani che lo volevano, con brutte
intenzioni. Ma
in via della Ghiara, dove Prampolini si stava avviando alla redazione della Giustizia, fu
intercettato dal Marzocchi, proprio quando i due l’avevano già rintracciato. Marzocchi
e Prampolini entrarono in una osteria gridando aiuto: i due
assassini scapparono fino a Parigi. In
Assise furono condannati a trent’anni, in contumacia co- me anche allora usava in Italia. Parmeggiani sopravvisse libero
nell’ospitale
Parigi, sempre dolce con gli estremisti italiani di sinistra e di destra. Fu uno dei
pochissimi della Banda Bonnot che si salvò; tutti gli altri vennero accoppati dalla
polizia, erano le prime rincorse in macchina per le metropoli. Ma non solo. Andò in Spagna e fece innamorare la bellissima figlia di un grande antiquario. Con lei e con un mucchio d’opere d’arte, alcune di grande valore ma molte fasulle, tor nò a Reggio durante il fascismo e fondò la Galleria Parmeggiani, un falso gotico adibito a Museo aperto al pubblico. C’è molto taroccato, ma val la pena di vederlo, è un esempio dell’epoca, arte gotica e
bric-à-brac. Per
aver donato la Galleria, e perché ormai il Prampolini era nel frattempo morto
e in fin dei conti le pugnalate se l’era
cercate, Parmeggiani venne perdonato
e condonato pacifica- mente dal fascismo. Il
Parmeggiani ogni pomeriggio veniva in Piazza d’Armi, ai giardini, a distribuire le
caramelle a noi bambini; poi lemme lemme (ma sempre solo) sfilava davanti al teatro e poi
paseggiava tranquillo fino al luogo del delitto. Vedi
il destino degli uomini: Prampolini era
morto a Milano, esiliato, azzitti to e senza una lira e il Parmeggiani a Reggio era tornatoricco e riverito. Questa era Reggio nel 1912. Era estate e a Reggio d’estate fa caldo, come d’inverno fra un freddo cane: la Pianura Padana. Neve, trenta centimetri a dicembre, piumoni di neve sui tetti, che minacciavano di crollare di sotto. Quando volevano offendere la neonata “Reggiana” i tifosi del football gridavano dalla tribuna: “Squadra da neveee!” In
questa Reggio gaudente e lavoratrice, Prampolini aveva edificato il primo modello di: “socialismo
in un solo paese” Però non ne potevano fare a
meno, perché Camillo aveva rabbonito la città. C’erano i sindacati, c’erano gli
scioperi, ma radi e tranquilli. Non era, per esempio, come Parma o come Ferrara, dove c’erano
i De Ambris, e dei giovani sindacalisti soreliani un po’ matti come Rossoni, Corridoni, Michelino
Bianchi, che poi erano amici di Mussolini ed erano anche patrioti, facevano la rivoluzione
ma amavano la Patria proletaria. Quella
di Camillo Prampolini era stata una grande scuola. Aveva suscitato un nucleo di
intelligenze che diversamente si sarebbero perdute e li aveva fatti tutti marescialli,
come Na- poleone. Roversi, Vergnanini, Bellelli, Storchi, Soglia, Gas- parini: tutti
deputati, sindaci, amministratori di sindacati, cooperative e banche con un sacco di
soldi, di onesti baiocchi. Ma guai a chi non filava dritto. Sulla questione denaro, Pram polini non transigeva: chi si appropriava d’una lira, aveva chiuso per sempre. Era incredibile come un
uomo così idealista e spirituale avesse un tale istinto pratico e concreto. Ma
soprattutto, è straordinario che questa
storia sia durata così a lungo, fino al 1924; perfino dopo il fascismo, molte
cooperative e associazioni si tinsero di nero, ma il costume e il metodo rimase lo stesso, almeno per molti. Anche la stessa industrializzazione del capitalismo reggiano, in fin dei conti, venne da questa provenienza. Per esempio, ancora dopo il 1945. La grande fabbrica, la Officine Reggiane, chiuse. Grande battaglia e grande pian- to. Ma fu la fortuna di Reggio. Vennero fuori migliaia di operai che si misero a lavorare, in proprio, in società, in cooperativa. Molti dei loro figli sono emigrati, molti hanno fatto i soldi, molti sono miliardari. Si
dirà, e giustamente, che non fu solo Prampolini, ma fu la natura dei reggiani, che da
sempre è stata così. Fu un felice incontro fra un Capo illuminato e un
popolo intelligente; av venimento
rarissimo. Così, i congressisti arrivavano alla spicciolata poi a frotte, alla Mecca del Socialismo. Le Donne Socialiste avevano fatto le cose in grande. Organizzavano la
macchina del mangiare, del bere e del dormire. Reggio non aveva una gran ricezione: un paio di alberghi dis- creti; buone locande e diverse osterie. C’era lo Scudo di Francia, la Posta; poi il Cavalletto, il Cannon d’oro, la Campana, il Balilla. Non erano nomi dozzinali, erano gli stessi del tempo dei Tre Moschettieri, o di Mirandolina. I
delegati, in genere, non avevano molti soldi; qualcuno, pochi. C’era tutto il
Mezzogiorno che veniva su e aveva la pretesa d’essere ospitato gratis. “Quelli
del Piemonte a te, della Liguria a te, del Veneto ci pensi tu”, distribuivano le
cape. “A
noi sempre i meridionali”, protestavano le sorelle Pinotti. Erano tre, figlie di un
capotipografo, anche lui adepto pram- poliniano, presidente dell’Ospedale. “E beh, che c’è da dire? Son bei ragazzi, meglio dei nostri”, lesgridò la caposquadra. “Sì, ma non si lavano. Non hanno il pigiama. Mi toccherà tirar fuori le lenzuola vecchie”, borbottò la Fernanda, ch’era piccola ma non stava zitta un minuto, neanche ammazzarla. “Non è vero”, strillò la Pasqualina Melloni, ch’era immigrata qualche anno prima da Caserta e aveva sposato un reggiano. “Sono più puliti dei
nostri mariti, solo che non hanno soldi,
non
si possono comprare le camicie ai magazzini” “Beh,
provare per credere. Fategli levare le mutande in vostra presenza,” propose
la Moratti ch’era la più spiritosa. “Tsè, le mutandine ve le levate voi, che siete rapide”, risero le sorelle
Pinotti. “Io
la voglio dare solo a un romagnolo”, proclamò decisa l’Adele Berti. “C’è quel
Mussolini che è un bel tipo. Le ragazze di Gualtieri e di Rio Saliceto ne parlano proprio
bene: lui ci ha fatto il maestro elementare, lì”. "Già, ma dicono anche che a Gualtieri ne abbia combinate delle belle", S'intromise la giovane Pinotti con aria saputa. "C'era una certa Giulia Fontanesi che l'aveva denunciato per una coltellata. La Giulia aveva un marito e un bambino e Mussolini, mascalzone, faceva anche il geloso. Lei non ci voleva più stare e lui la graffiò col coltello su una coscia". “Ma va là”, disse la capa. “I rivoluzionari fan solo chiacchie- re. I riformisti sì che sono gente seria, poi hanno i baiocchi. “Già” riflettè la Fernanda Pinotti “e se i riformisti li espellono, noi dopo come faremo?” “Ci arrangeremo. Tutti, meno che i preti!”, concluse la caporala. Con questo alto dibattito, si concluse l’antivigilia e si preparò la vigilia del gran giorno del Congresso socialista. |