LO SCANNO DI ALESSANDRA MUSSOLINI

7 aprile 1992. L’on. Alessandra Mussolini, eletta alla Camera dei Deputati, chiede di occupare lo scanno del nonno Benito.

L’on. Alessandra Mussolini entrò nell’aula e si sentì gli occhi dei colleghi (ma anche delle colleghe) puntati addosso. Ebbe un leggero brivido di piacere e di paura. Attorniata dallo stuolo dei colleghi maschi del partito (ricordava Edda Ciano al matrimonio col povero Galeazzo, tra le due file dei moschettieri del Duce), salì lentamente i gradini fra i banchi della destra e si assise sullo scanno che era stato di suo nonno. Da lì, rivolse un leggero inchino alla Presidente Nilde Iotti che la stava osservando. "Che pezzo di ragazza" disse Nilde fra sé; "Dio mio, potrei essere sua nonna, se la storia si fosse svolta diversamente: ma non mi pento certo del mio povero Palmiro, "bestemmiato e pianto". Si vede che ha della romagnola, deve avere le misure del seno quasi come le avevo io alla sua età". La Iotti rispose con un cenno cortese ma riservato del capo; si compose con un tocco lo chignon dietro la nuca; scampanellò e pronunciò: "Dichiaro aperta la seduta".

Gli scranni di Montecitorio sono stretti e scomodi, poco più che degli strapuntini. Il fondoschiena dell’on. Alessandra, decisamente rispettabile, leggermente debordava da una parte e dall’altra, costringendo i due colleghi a lato a stringere i ginocchi, per evitare equivoci. Rapidamente, il cuoio rosso sottostante si scaldò, o come usa dirsi in Romagna, s’infumanò. E fu allora che dal sottoscanno venne fuori una vocina, flebile ma autoritaria e roca, avvertibile solo dall’orecchio dell’interessata.

"Mo vè", disse la vocina, "che sta succedendo? Cos’è questo calore, umido e delicato, profumato e starei per dire afrodisiaco? C’è un netto miglioramento rispetto al passato. L’ultima volta sedeva l’on. Pino Rauti, una cosa orribile, un odore vecchio e tabaccoso, ossa che scricchiolavano e puncicavano da tutte le parti e quando si alzava era per parlare in calabrese, figuriamoci, del fascismo di sinistra: una calamità. Questi invece, sì che sono argomenti". "Stai fermo, nonno che cosa fai" sussurrò preoccupata Alessandra. "Dopo tutto quel ch’è successo, non hai ancora imparato a stare al mondo, a tener ferme le mani? Aveva proprio ragione la povera nonna Rachele, che mi raccontava: "L’era un brev burdèl, un bon tabàc, mo l’era un po’ purzèll, semper cun chel man a burdighèr in mezz’ai stanèl". Lo sai dopo come va a finire: che ti fucilano".

"Madonna", esclamò il nonno, "meno male che m’hai fermato, stavo per commettere un incesto, non me lo sarei mai perdonato. Mo di chi sei figlia, te?".

"Di Romano, naturalmente", rispose lei.

"Bravo, finalmente ne ha combinata una buona. Era il mio cruccio, sempre a strimpellare quelle suonate da negro americano sul pianoforte, puvrèn. Adesso, ci sei tu che mi riscatterai". "Ho tanta paura, nonno", confidò Alessandra. "Tutti mi osservano, se non ce la faccio mi sbraneranno, diranno che sono una Moana Pozzi con la fortuna di chiamarmi Mussolini. Pensa che già stamattina dovrò parlare per la prima volta, per la dichiarazione di voto sull’elezione del Presidente".

"Niente paura", sbuffò il nonno. "Non sei venuta a sederti qui apposta perché il mio spirito t’incoraggi? Quando ti alzerai per parlare, se ti viene a mancare la parola o se hai un vuoto di memoria, dammi un colpetto col sedere contro lo scanno alzato e vedrai che roba!".

Il Presidente Nilde Iotti scampanellò e disse: "La parola all’onorevole Mussolini!".

L’Alessandra si alzò, spinse con un delicato colpo di coscia lo sgabello all’indietro e lo drizzo. Roteò gli occhi bruni e istintivamente sporse la mascella in avanti. A quel punto successe il finimondo. L’on. Tassi, in camicia nera, urlò: "E’ proprio lui, redivivo, tale e quale, solo ch’è più bello!". L’on. Servello s’inginocchiò dicendo: "Valeva la pena di tanti sacrifici e di tanti rischi per rivederti qui, o Duce!. Intini e Di Donato scesero nell’emiciclo e si scontrarono con i fascisti, seguiti dai comunisti e da Rifondazione, e per la prima volta dopo trent’anni si rifece sul campo l’unità della sinistra. Finalmente, i commessi ebbero ragione dei contendenti, il Presidente scampanellando e rimbrottando rimandò al posto i facinorosi e gl’impuniti, e ridiede la parola all’onorevole Mussolini. "Accidenti", disse la Jotti rivolta ad Occhetto. "Se si chiama così, come altro devo chiamarla, che colpa ne ho io!".

"Signor Presidente, onorevole De Nicola, cioè onorevole Farinacci, cioè onorevole Giuriati, cioè onorevole Rocco (ma che cosa mi stai suggerendo, nonno!), mi scusi, onorevole Iotti", riprese in mezzo a uno sbalordito silenzio Alessandro Mussolini. "Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Il popolo italiano si è pronunciato con le ultime elezioni per un governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Mi sono rifiutata di stravincere, e potevo stravincere. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento… Potevo, ma non l’ho, almeno fino a questo movimento, voluto. Non gettate, signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Iddio mi assiste nel condurre a termine la mia ardua fatica". Alessandra si sedette sfinita e sussurrò: "Oh, Dio, cosa mi hai fatto dire, nonno!". "Niente paura, ragazzuola", disse lo Scanno-Mussolini (come venne chiamato da allora in poi). "Vai avanti così, vedrai che tra un po’ ci mollano! Li conosco, io".

A questo punto scoppiò un altro pandemonio. Anche l’on. Umberto Bossi si ribellò: "Urcamiseria", gridava. "Queste cose dovevo dirle io, e tu mi hai rubato lo spunto perché sei una falsa bionda e ti chiami Mussolini; ma tu non sai come ce l’ha la Lega!". "Evviva il parlamento!", gridarono abbracciati gli onorevoli Amato e Occhetto.

Il Presidente Iotti sospese la seduta, azionò la sirena e proclamò: "La Camera è convocata per il 28 ottobre 1992".