LA SIESTA

 

Esattamente vent’anni dopo il Congresso di Reggio, un caldo pomeriggio del luglio romano, Benito si godeva una piccola siesta sul suo divanetto, nel gabinettino dietro al salone del Mappamondo, a Palazzo Venezia.

Il  fedele maggiordomo, il maestro di casa, cav. Quinto Navarra, gli aveva appena servito il “canarino” (scorza e goccia di limone nell’acqua bollente) perché il Duce soffriva più che mai  di acidità.

In un piacevole dormiveglia, riandava col pensiero ai tempi passati. “Quante belle cosine ci ho fatto qui. Come piace a me, veloci e senza pensieri. Cara Rachele, perdonami. 

Ma lei è contenta, lo sa che alla fine voglio bene solo a lei.” E gli sfilarono davanti agli occhi della memoria, i compagni e le compagne del congresso 1912;  nostalgie di gioventù.

La prima che lo aveva lasciato era stata proprio lei, la piccola ardente Angelica Balabanof. L’aveva portata con sé all’Avanti! A Milano.

Quel mattino dell’ottobre 1914, quando lei aveva letto l’articolo che lui aveva scritto di nascosto e stampato la notte, nel segreto della tipografia, era allibita, poi era scattata furi- bonda, fuori di sé.

“La guerra, vigliacco, traditore, ma io ti denuncio alla direzione del partito,  ti faccio espellere !”; E  così fece.

“Che peccato”, disse a sé stesso  Mussolini in dormiveglia. “Quel giorno del 1914 scavò un baratro tra di noi; tra Angelica, il mio solo  maestro politico, e il suo allievo, che doveva procedere verso il suo destino”.

Benito era retorico anche quando dormiva. Più tardi Angelica se n’era andata: con Lenin, in Russia. Commissaria del popolo, era ritornata vincitrice a Kiev. Ma poi aveva litigato anche con Lenin.

“Troppa  dittatura, troppo sangue inutile”; ora era esule a New York.

“New YorK!”,  Benito sorrise. “Sarà seduta sulla punta d’un grattacielo!”

L’aveva sostituita, finalmente, nelle grazie del Capo, la bella Margherita Sarfatti. Era durata a lungo, ma ora cominciava a stufarsi anche di lei: troppo raffinata, troppo intellettuale, troppo snob. E troppo bionda, occhi azzurri.

“Mi è venuta voglia d’una mora!”, considerò Benito tra sé”. E’ un pezzo che non ce n’ho”

Già, ma prima c’era stata quella bella anarchica, la Maria Rygier! Che dopo l’aveva seguito al Popolo d’Italia, poi aveva litigato. Chissà dov’era finita, quella: doveva essere a Parigi. Bella intelligenza, bella penna, ma matta anche lei come una cavalla.

E i compagni della Sezione Monforte, a Milano, la sera della 

espulsione. Se ne era uscito fra le urla, con quella frase napoleonica: “Voi ora mi odiate, perché mi avete troppo amato!” Non gliel’aveva voluta dar vinta. 

Ma anche il vecchio amico di gioventù, Torquato Nanni. Anche lui lo aveva seguito fino al Popolo d’Italia e poi nell’interventismo. Ma alla Marcia su Roma non c’era venuto.

“Sei troppo voltagabbana, Benito. Anche tu al Quirinale, come Bissolati, anche tu andrai al Vaticano, ti ci vedo tra un po’. Sei un opportunista borghese. Mi sai dire cosa vuoi fare, per una volta sinceramente?” E Benito gli aveva risposto: “Mè, a voi cmandé”.

Arpinati, Leandro, quello gli era dispiaciuto. 

Erano proprio amici del cuore, Benito e Leandro. Ma Leandro aveva litigato a morte con Starace; che era un coglione, ma purtroppo al Duce  serviva. E poi aveva avuto il coraggio di sparlare di lui e dei suoi: “L’Italia non è un feudo della famiglia Mussolini!” aveva osato dire in pubblico, quell’a- narchico vecchio stile. A lui, che l’aveva fatto vicesegretario del partito  fascista, sottosegretario all’Interno!

Prampolini, invece, lo aveva risparmiato per rispetto. 

Il vecchio era stato accolto dall’amico Nino Mazzoni, l’ex deputato di Piacenza, nel suo negozio di antiquariato in via Manzoni, a Milano, gli faceva il contabile, tanto per guada gnare qualche soldo. Era morto quell’anno stesso, gli aveva riferito il Questore, povero in canna. Il Questore aveva letto un foglio, lasciato sulla scrivania, con le sue ultime volontà:  

“La mia salma, non  vestita, avvolta in un lenzuolo, sia trasportata in forma civile, in un carro d’ultima classe, senza fiori, non seguita dai miei famigliari; venga cremata, non sepolta. Né al cimitero né altrove nessuna lapide, nessun segno che mi ricordi. “Azzident, che carattere quel vecchio”.

Come anche quel testardo di Giacomo Matteotti. Sì, lui aveva ordinato di dargli una lezione, ma Volpi e Dumini l’avevano picchiato sulla  testa troppo forte: “Una disgrassia, ma poteva essere una disgrassia anche per me. Se l’è voluta”.

Filippo Turati era appena allora morto in esilio a Pari- gi, malinconico  vedovo dell’Anna, circondato dai resti del suo partito in esilio: Menè Modigliani, Oddino Morgari, Nullo Baldini e tanti altri. Il Baldini che aveva aperto la gargotta dove con l’aiuto della moglie si divertiva a far le tagliatelle per tutti.   

La signora Anna Kulisciof s’era spenta a Milano nel 1925, Uccisa anzitempo dalla tubercolosi e dalla artrite deformante. La sua bellezza era svanita da tempo, ma non la sua dolcezza. Anna non aveva fatto in tempo a seguire il suo  Filippo a Parigi. Lo scultore ex deputato Zirardini le aveva dedicato un bel bronzo, adatto per il cimitero. 

Anche il suo amico Pietro Nenni, collega di carcere, s’era rifugiato  a Parigi, con la Carmen e la figlia Giuliana, la bambina  amica della Edda. “Bah, gli volevo bene, gli avrei mica fatto niente, a lui. Tutta gelosia”.

Costantino Lazzari e G.M. Serrati erano andati a farsi benedire da Lenin, a Mosca. Avevano fatto un po’ di confusione con la Terz’Internazionale, poi s’erano rassegnati ad andare coi comunisti. Non avevano mai capito granché: e sì che Lenin gliel’aveva detto in tempo, che l’unico capace di far la rivoluzione in Italia era Mussolini.

Bissolati e Bonomi erano stati, finalmente, ministri, ma per poco, durante la guerra. 

Enrico Ferri, Podrecca, Bombacci, Michelino Bianchi, Ma- nusardi e tanti altri rivoluzionari, sindacalisti, anarchici, lo 

vevano seguito, ma non con grande successo , travolti dai giovani fascisti:largo ai giovani! Quella del 1912 era una generazione finita.   

“Beh, a me non è andata male”, mormorò sbadigliando.” Come sempre avevo ragione io, avrebbero dovuto darmi ascolto .

Domani vado in visita alla Bonifica Pontina, andrò a deporre una corona  alla lapide dei cooperatori ravennati morti a Ostia nella prima bonifica.   

C’è scritta  una frase di Andrea Costa bellissima, che quasi sembra mia: “Esercito di pace - dai dolci campi di Romagna - qua trassero - e pane e lavoro ebbero tutti - e molti la morte”. 

“Bella, domani la citerò”.  

  F I N E

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Il rivoluzionario e il Re.

'Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto'.

 

I Socialisti a Parigi

(Buozzi, Faravelli, Turati, Saragat)