LA VERIDICA STORIA DEL TREPPIEDI (racconto
fantapolitico) di VENERIO CATTANI |
Il giorno di Capodanno del
2006, il Presidente del
Consiglio dei Ministri enotriao, Elvio Bernsasconi, venne aggredito e
gravemente ferito, in modo inopinato, improvviso, insolito. Per quel giorno il Presidente
si era fatto organizzare un bagno di folla nella piazza più
bella e nota di Poma, capitale di Enotria, Piazza
Vascona. Era una grande opportunità mediatica: Piazza
Vascona da sempre ospitava il grande mercato natalizio dei doni per i
bambini. La Piazza, dai primi di dicembre all’Epifania, era sotto i
riflettori della televisione cittadina, nazionale e continentale, con le
sue bancarelle e i suoi negozi, insieme popolari e ricchi, presso i
quali si fermavano turisti e cittadini pomani, di tutti i sessi, ceti ed
età, per acquistare regali, Il Presidente Bernasconi si sentiva in quei giorni
particolarmente felice e
soddisfatto di sé. Dopo un lungo periodo di contrasti, incidenti, difficoltà e soprattutto di sondaggi negativi, all’alba del nuovo
anno si sentiva in innegabile ripresa. Con alcune mosse azzeccate aveva
respinto e stretto all’angolo l’opposizione: una opposizione dura e
selvaggia, politicamente e mediaticamente incapace ma con una grossa
eredità elettorale e territoriale, quella dell’ex Partito Comunista
Enotriano. Proprio quella mattimna aveva tenuto una conferenza stampa
trionfale, o almeno trionfalistica, Aveva
elencato le realizzazioni del suo governo, e specie le ultime, la
riduzione delle tasse, l’avvio del Ponte sullo Stretto, il successo
internazionale ottenuto dal suo governo con il pronto intervento in Asia
Orientale, dove era avvenuto un catastrofico terremoto-maremoto. Il
ministro degli esteri, Frini, gli aveva appena comunicato che il numero
dei dispersi enotriani nel
disastro, dapprima altissimo, stava diminuendo di cento al giorno;
presto si sarebbe arrivati allo zero, e anzi i paesi disastrati
avrebbero dovuto restituircene qualcuno in più.
Oltre a ciò, era soddisfatto del felice esito degli
interventi di restayling operati su di sé. Il Presidente era stato un
colossale pierre e sapeva perfettamente quanto l’aspetto esteriore
conti per un uomo politico, in tempi
in cui la politica era, per il cinquanta per cento, mass-mrdia. Come Machiavelli aveva affermato che la Fortuna era la metà del successo del
principe, così oggi Bernasconi poteva
dire dei media. Ma bisognava saperci stare e anche sacrificarsi.
Insomma, era una buona giornata. Era festa, su Poma
splendeva, come sempre, il sole.Torno torno la Piazza Vascona, nel
grande giro delle bancarelle, sia i clienti che gli operatori lo
accoglievano, come da tempo non succedeva, con sorrisi e perfino
applausi. Il Presidente procedeva nella sua passeggiata, in mezzo a una
scorta di guardie, sia private che pubbliche, armata ma discreta e
silenziosa. Si fermava ogni due bancarelle, scambiava due parole e
qualche barzelletta, arte nella quale era maestro, con le belle commesse
ai banchi, con i nonni che offrivano doni ai nipotini, e soprattutto si
faceva fotografare coi bambini più piccoli, ai quali offriva chicche e
sorrisi. Quando il Presidente, col suo imponente codazzo di
collaboratori e di poliziotti, passò davanti a Ernesto La Selva, questi
si alzò. Ernesto era un relativamente giovane pittore; di quei
pittori fra il dilettante e il professionista, artisti di strada come i
“madonnari”, che popolano Piazza Vascona come tante alte piazze
turistizzate del mondo. Dipingeva sia i paesaggi della piazza, con le
sue chiese, le sue statue, le sue fontane e i suoi caffè coi tavolini
esposti, sia deliziosi e rapidi ritrattini di bambini, ragazze e
turisti. Il mestiere gli serviva per vivere, anche se non
brillantemente, al sole di Poma, lui che era disceso da Mantua per
fuggire dalla nebbia. Bellissima città Mantua. Di grandi artisti dagli
affreschi dei quali aveva
imparato il disegno, anche se certo non osava paragonarsi al Mantegna e
neanche a Giulio Romano. Ernesto La Selva si alzò; rapidissimo agguantò il
cavalletto sul quale dipingeva, e il foglio di carta Fabriano con
l’acquarello appena accennato, cadde sui selci. Fulmineo s’incuneò
nel quadrato delle guardie del corpo e si fiondò sul Presidente
Bernasconi. Gli arrivò alle spalle e da lì, un attimo prima di essere
afferrato dalle guardie, gli scagliò con forza il cavalletto ripiegato
sulla nuca. Il puntale del cavalletto fu di un millimetro deviato
dal braccio dell’onorevole Guido Lettura, il sottosegretario alla
Presidenza che seguiva il suo capo e che con la coda dell’occhio aveva
avvertito l’arrivo dell’esagitato un centesimo di secondo prima
delle guardie. Ciò nonostante l’urto fu tremendo e deflagrò nel
cranio del Presidente come un proiettile. Bernasconi cadde a terra,trascinando sotto di sé un
moccioso che stava accarezzando. Rimase immobile sul selciato, mentre le guardie finalmente allertate bloccavano l’aggressore con dei colpi di karate, lo stendevano, l’ammanettavano. Il medico di Palazzo che sempre seguiva il Premier, si chinò su di lui, lo rovesciò e lo auscultò. “Non è morto, respira ancora, chiami un'ambulanza, presto”, gridò all’onorevole Lettura.
Il cellulare
del giudice Enea Martello, gracchiò sulla coperta stesa al sole di
Formia. Il giudice Martello aveva casa costì, e aveva sperato di
trascorrervi serenamente le feste di Natale e Capodanno. Ma quel capodanno del 2006, non andò come aveva progettato.
“Hanno arrestato Ernesto La Selva. L’hanno
portato a Madonna Coeli: ha attentato al Presidente Bernasconi.” La voce
romanesca che telefonava la notizia era bassa e greve. “Cosa ha fatto?”gridò Martello. “E tu chi sei,
come sai che sono qui….” “Il Partito sa tutto”
rispose la voce. “Adesso
sta a te.” Martello si alzò, stordito. Era uno dei GIP di Poma,
ed era di turno. Andò a casa, si vestì da ufficio, prese una
ventiquattore, salì in auto e si precipitò a Madonna Coeli. Per una
vota, non aveva l’auto blindata di servizio, né la scorta; non aveva
avuto il tempo di avvertire l’ufficio; del resto, era Capodanno e
chissà chi gli avrebbe risposto. Madonna Coeli era un lungo e piuttosto
grigio carcere sulla riva destra del fiume Tyberis.
Si fece portare l’Ernesto La Selva nella saletta
riservata agli interrogatori dei magistrati. Quando l’ebbe davanti lo guardò
attentamente. Lo
conosceva fin da ragazzo: suo padre era segretario della Sezione di
Mantua nei fatidici anni settanta. “Sei impazzito?”, attaccò. “Io lo odio”, rispose pacificamente Ernesto. “Tutti noi lo odiamo”, disse Martello. “Ma non
per questo gli tiriamo sgabelli o treppiedi sulla testa. In ogni caso,
non è questo il momento.” “Io lo odio”,
ripeté Ernesto. “Porta l’Italia
alla rovina, lo dite continuamente anche voi. E poi non volevo
ammazzarlo. Avrei voluto dargli una pacca sulla pelata, ma non era
possibile arrivarci con le mani; allora ho adoperato il treppiede.” “No, non l’hai
ammazzato. Però ti buscherai
egualmente dieci anni. Povero tuo padre, ch’era così saggio: che
disgrazia, un figlio imbecille come te.” “Dieci anni?”, gridò stupefatto
Ernesto La
Selva. “Siete matti? Per una bravata… L’ho appena toccato, tanto
per dare un esempio. Il giornale scrive sempre ch’è insopportabile, che
è un delitto che l’Enotria abbia un presidente che corrompe i giudici
e che traffica con la mafia. E allora? Fate sempre chiacchiere, voi del
Partito e i vostri amici dell’Oliveto! E quel Brodi, che sembra il
parroco dell’Annunziata di Mantua! Ma quando vi decidete a cacciare Bernasconi a calci con le scarpe chiodate, come diceva l’on. Levatti al
Presidente Von Gaspar”. “Ma il
Bernasconi ha avuto i voti, capisci? E noi li
dobbiamo avere la prossima volta. Ma come facciamo ad averli con degli
svitati come te: e Genova e i noglobal e la pace e i girotondi e i
disobbedienti e i centri sociali e il letame del compagno Dal
Verme. E’ così che si perde!” “Certo, con dei mollaccioni inconcludenti come voi
arriveremo al potere fra cent’anni. Ha ragione il regista Nanni: con
gente come voi come si fa a vincere?” Il giudice Martello questa volta
reagì. Suonò il
campaello e urlò: Poi il GIP si mise al
computer e cominciò a
scrivere l’istanza di scarcerazione.“Lesioni gravi….La custodia
cautelare non è obbligatoria.” “Disgraziato,quell’Ernesto ; e ora col PM dovrò vedermela io…”
Il Presidente Bernasconi mosse gli occhi, poi li aprì.
Si trovava in una stanza chiara e pulita, nella migliore clinica della
sua città, Malano. Udì la voce dell’amico prof. Varzi che diceva: “Eccolo, rinviene. Ve lo lascio ma non
stancatelo.” Bernasconi chiese: “Ma dove sono?”
A destra aveva la moglie, la dolce Vittoria Del Garda
; a sinistra il bravo e fido sottosegretario Guido Lettura, il suo alter ego. “Al
San Gabriele di Malano. Ti ci abbiamo portato
in elicottero, dopo l’attentato.” “L’attentato?” domandò stupito
Bernasconi. "Quale
attentato?" “Sì, l’attentato a te, tesoro mio “,
Vittoria
stava piangendo. "A te che sei l’uomo più buono e più bravo del
mondo, anche se un po’ ripetitivo. Quale ingratitudine! Che paese malvagio!
Che incomprensione! E
tu hai fatto tanto per loro,
ti stai giocando il patrimonio, il governo, la televisione, la
Montatori, la squadra
del Malan!” “Hai schivato la morte per
miracolo,”aggiunse
Lettura. Un certo Ernesto La Selva ti ha centrato in testa con un
treppiede. Ti ho portato qui e il prof. Varzi ti ha rimesso apposto. Un’operazione
difficile, hanno dovuto trapanarti il cranio.” “Oddio”, si preoccupò Bernasconi ,” e il mio cervello?” “Bene come sempre, ci mancherebbe!” gli garantì
Vittoria. “Meno male, hai visto quanto tempo c’è voluto
per Bossi, e non è ancora a posto. E io che farei tutto quel tempo per
guarire? E l’Italia? Si
chiese angosciato il Presidente. Si voltò verso Lettura e cominciò a riflettere: “E ora che facciamo? “ “Io direi le elezioni anticipate”
rispose a se
stesso. “ Questo è il momento. La gente è impressionata
dall’attentato. Ha capito che dicevo il vero quando mi lamentavo degli
insulti e della campagna d’odio. Ha capito che, girala e voltala come
ti pare, i comunisti sono sempre comunisti. Ora lo tocca con mano.
Questo colpo alla testa mi fa un male terribile, ma vale almeno un
milione di voti, anche di più”. “Sì, è il
momento”, confermò Lettura. “Fra la riforma delle aliquote e
l’attentato, questa volta facciamo il pieno. I sondaggi vanno sempre
più su, hai recuperato in un mese quello che avevi perduto in due anni".
“Ma chissà quando mi lasceranno uscire” osservò
Bernasconi. “Beh, se non hai nessuna lesione nervosa, per
quanto riguarda le ossa, son già passati quindici giorni e al massimo tra
un mese ti rilasceranno, mi ha assicurato Varzi,” lo informò
Vittoria. “E fra due mesi, elezioni. Che vuoi che sia un
mese, per un mese farò tutto io, tu riposati, devi un po’ rimetterti.
Ne approfitterai per fari ritoccare il lifting. Intanto, ti ho portato
le lettere di Bush e di Putin , del Papa e di Glinciampi, perfino di
Chirac e di Scroeder, ma questi si sa che non son sinceri. "Lettura
gli sottopose una grossa cartella, sapeva di fargli piacere". “Fra due mesi, fra due mesi, gliela faremo vedere noi”, concluse Bernasconi.
A Poma erano iniziate le indagini. Martello voleva
chiudere al più presto; comunque era chiaro che per il processo ci
sarebbe voluto il suo tempo. Interrogò dapprima dei testimoni oculari e prossimi
all’accaduto. Particolarmente interessante fu la testimonianza della
giovane Federica De Leo, che si dichiarò fidanzata di Ernesto e con lui
convivente “more uxorio.” “Poverino,era diventato matto, era una fissazione.
Pensava sempre al Bernasconi, persino quando scopava. Era stranissimo.
Alle volte, quando arrivava all’orgasmo, gridava:” Ecco, Bernasconi,
tieniti questa!” Ma altre volte entrava in crisi depressiva, e proprio
al momento topico, si sgonfiava. Accidenti, diceva, stavo
pensando al discorso di Bernasconi a Porta a Porta; poi vedevo il Vespa, ed ecco l’effetto.
Ho cercato di aiutarlo, sia con calmanti che con la
cocaina. Niente da fare. Non era più lui. Io capivo che doveva
sfogarsi; e infatti si è sfogato. Quel maledetto treppiede! Che gli
succederà adesso?” “Stando alla lettera della legge, circa dieci anni.
Ma la lettera è la lettera, e la politica è la politica. Staremo a
vedere, non si perda d’animo,” la consolò il giudice. Successivamente, il giudice Martello non
poté
esimersi dall’ascoltare quei
politici che si erano maggiormente esposti con dichiarazioni dubbie,
giustificative dell’atto inconsulto di Ernesto. Li interrogò come
“testimoni a conoscenza dei fatti. “Mi dispiace di averla dovuta chiamare” si scusò
Martello con l’on. Rosa Binda.” Ma, Dio mio, lei ha rilasciato certe
dichiarazioni, che è già molto se non la devo imputare di complicità,
o di associazione esterna.” L’on Rosa Binda era nota per esprimersi con chiara
eloquenza: “Complicità con quell’idiota? E chi può
credere che io sia stata complice di un deficiente del genere? Io ho
detto solo che era stato provocato dalla protervia del Brusconi, che
aveva le sue buone ragioni. E’ Bernasconi che andrebbe imputato di
complicità. Anzi: perché non lo fa arrestare? Stia attento, è
omissione di atti d’ufficio." Dopo di lei, fu ascoltato il Premio Nobel, Serse
Melafò. Era un grande attore, almeno come altezza, e si espresse in un curioso gergo fra il pavano e il
maccheronico, che ormai ripeteva da mezzo secolo e che ricordava il
Ruzzante. Del resto, politicamente Melafò era rimasto al tempo del
Ruzzante e anche come recitazione non era arrivato al barocco;
gesticolava come un comico della commedia dell’arte e vestiva come un
bravo del 600. “Poffar
perdindirindina, che storia culiancula me tira
fora, sior giudicante. El
Bernascon xe un presidente disgrassià e bestia, el doverìa star drento
in galera, ai Piombi, no fora a provocar la poera zente, come quel pitòr
Ernesto Che Guevara La Selva, bon fiolo purassà cojon, cojonasso.
gnorante e anche losco de oci, como se fa sbagliar la mira tanto da visin,
mai pù che togheria na occasione del zenere. Uha, varda che robba, com
se fa a sopportar una bestia come Bernascon, che no ga arduto tuti a la
fam, uh che fam sior giudicante, me daga una mosca, un peocio che me la magno tuta, le alete, le zampete, sì che
l’e bona, altro che il Siniscalco.” Il giudice Martello gli porse un’altra mosca,
per
calmarlo perché il Malafò era andato fuori dai gangheri e farfugliava
le stesse storie che aveva raccontato al Premio Nobel, alla cerimonia di
Stoccolma. Il Re l’aveva ascoltato con stupore e aveva sussurrato
all’orecchio della Regina.:” Ma questo enotrio parla etrusco! Lo devo
contattare subito!” Il Re era famoso per le sue campagne di scavi
archeolotici, ogni estate in Etruria. “Ha il profilo di un etrusco che
ho visto su un sarcifago a Vulci, meraviglioso!” “Calmati, Gustavo
Adolfo,”disse la Regina,” il sarcofago ti guarda!”
“Franca tènime,” urlò all’indirizzo della
moglie, come sempre presente alla recita.” Se ciapo il Bernascon
ghe magno la testa, e po le budèla,
argh! urgh1m slurpi!, famatore de li Enotri, purcassa bestiassa
imonda, instuprador de putele, asasin dei poverassi dell’Irak, vive
la Paix!”
“Bravo”. applaudì il dottor Martello.”Ma ora
basta sennò chiamo il compagno Benigni,che almeno parla toscano.”
Il senatore a vita, Marco Lucci, il giudice Martello
andò a interrogarlo al Senato. Marco Lucci era stato nominato Senatore
a vita in quanto Grande Poeta: le sue poesie erano lette da almeno
sessanta enotriani su sessanta milioni, ciò che nella
letteratura enotriana era considerato un risultato
rilevante, dato che le grandi tirature erano riservate ai comici,
come la signora Lipizzotto e il geometra Fametti. “Senatore,
lo so che lei non c’entra per nulla; ma
vorrei sapere come mai un novantenne senatore e poeta come lei si sia
lasciato andare a delle dichiarazioni così, mi perdoni, infantili.” “Bernasconi è un bieco fascista”, dichiarò
Lucci . “E’ come Mussolini: per un graffietto si mette il cerotto,
quel demagogo.” “Ma”, obbiettò Martello,” lei allude
all’attentato della Gibson. Però la Gibson aveva davvero sparato al
naso di Mussolini.” “E allora, il cavalier Bernasconi
è peggio del cavalier Mussolini, perché a lui non hanno neanche
sparato. Quel povero giovanotto voleva soltanto giocare.” “Beh, sempre stando ai paragoni, il ragazzo Anteo
Zamboni che sparò a Mussolini a Bologna, venne immediatamente linciato
e fatto a pezzi dalla folla.” “Già: ma allora la folla amava Mussolini, mentre
ora la folla, che dico, il popolo odia Bernasconi e vorrebbe impiccarlo
per i piedi a Piazzale Loreto.” “Senatore, quali esami ha fatto ultimamente “,
s’informò timidamente Martello.”Devo essere certo che al processo
sia in grado di testimoniare.” “Come si permette!”, lo ammonì Lucci .”Persino
l’onorevole giudice Della Pietra, maestro del diritto, mi ha dato
pubblicamente ragione. Ha detto che ho avuto il coraggio di dire quel che
tutti gli enotraini pensano. Anche lui dice come me, che il Presidente
Bernasconii se l’è voluta, che se l’è cercata, che il povero
Ernesto fu provocato dalla sola vista della orrenda pelata
presidenziale, Dopo il trapianto, poi. Del resto, quel fascista non si
merita una elegante e colta canizie come la mia. Solo i poeti ormai
portano i capelli bianchi. Gli è andata bene, al Bernasconi, altrochè;
spero di vivere fino alla prossima volta.” Il GIP Martello ritornò a Palazzo per scrivere la
sentenza di rinvio a giudizio. “Incredibile”, pensava durante il
percorso.” Quasi la metà degli enotriani odia Brusconi, e addirittura
lo vorrebbe morto. Ma come è successo? Eppure è un grande
comunicatore; ed è pieno di buone intenzioni, vuol bene a tutti e sopra
ogni altra cosa desidera di essere apprezzato e amato. Per lui è
inconcepibile che qualcuno lo odi, anzi, che non apprezzi il suo lavoro
e le sue doti. Chiama “amico” tutti quelli che conosce, perfino dei
tangheri come Bush e Putin. Evidentemente, le sue qualità di
comunicazione hanno sortito l’effetto contrario. E’ un fenomeno
anomalo di psicologia delle masse; come l’onda anomala del maremoto
nel Golfo del Bengala. E’ un fenomeno da studiare: forse è proprio
questa spasimante ricerca d’amore, di stima e di consenso, che suscita
l’odio. Anche Nerone voleva essere amato dal popolo, e per questo
incendiò Poma. Se fossi giovane ci farei una tesi di laurea.” Rientrato in
ufficio, guardo i messaggi sul
telefonino cellulare. Un messaggio era particolarmente interessante. Era
del suo collega Sulci, procuratore a Caserta ma sopratutto segretario
del potente Sindacato dei Magistrati. Il Segretario lo esortava a
contribuire con un con un simbolico Euro alla sottoscrizione fra
magistrati per acquistare un altro cavalletto per il pittore Ernesto
Che, che aveva sacrificato il suo sulla testa di Bernasconi. Martello
scosse la testa:”E’ matto, questi stanno esagerando.” Cominciò a scrivere la sentenza di scarcerazione. “Ernesto La Selva intendeva certamente colpire il
Presidente Bernasconi e non uno qualsiasi. Come egli stesso ha
confessato, odia il Bernasconi. Tale odio, come ha testimoniato la di
lui fidanzata Federica De Leo, è maniacale ed implacabile. D’altra
parte, tale psicomania è molto diffusa. Come ha dichiarato il collega
onorevole Della Pietra, il poeta Lucci ha detto ciò che molti italiani
pensavano. All’apparenza quindi, il reato è politico. Ma solo
all’apparenza. Il Bernasconi infatti,
quel pomeriggio di Capodanno, passeggiava in Piazza Vascona non in
qualità di Presidente del Cosniglio, ma in qualità di privato
cittadino. Il suo proposito non era quello di amministrare, ma quello di
digerire, con una passeggiata igienica dopo il lauto pasto di Capodanno.
Di distrarsi e osservando i bambini e i nonni, di pensare alla Befana,
per sottrarsi un attimo all’incubo dei suoi doveri istituzionali.
Pensava: Che mi porterà la Befana? I soldi li ho; una bella moglie,
pure; gli amici, anche ; la mamma e ancora viva; la zia suora, pure. Che
altro posso volere? Che la Befana mi porti il Quirinale? E’ presto, è
il regalo dell’’anno prossimo. E si vedeva a costruire col pongo e
coi mattoncini Lega, il magnifico edificio sul Colle. Pensava anche di
cambiarlo, di rimodernarlo. E’ un po’ vecchiotto, diceva. E in quel momento, bamm!, il colpo di treppiede. Ma
come abbiamo detto, il Bernasconi in quel momento non stava presiedendo;
non era a Palazzo Chiugi, né a Monte Incintorio. E dunque
il La Selva in quell’attimo non ha colpito un politico, ma un signore
qualunque, E’ bensì vero che la lesione è
grave. Ma il La
Selva ha colpito alla testa, che egli giudica un’appendice deviata e
perversa del Bernasconi. E
quindi l’intento era comprensibile se non giustificabile, perché
voleva cambiare la testa della vittima e magari togliergliela del tutto,
per il bene sia dell’Enotria che del Bernasconi medesimo; e quindi
l’intenzione era commendevole.
P.Q.M.
Si delibera che Ernesto La Selva sia scarcerato, con
l’obbligo di presentarsi due
volte al dì alla Stazione dei Reali Carabinieri, compatibilmente con
le sue esigenze di lavoro. Per esempio, se sta facendo un ritratto in
Piazza Vascona può presentarsi, anzichè alle 9 di mattina, alle 9 di
sera, tanto è lo stesso. Si delibera peraltro la requisizione del
treppiede e l’obbligo di dipingere appoggiando il quadro sulle
ginocchia, al fine di evitare la reiterazione del reato.
Il Presidente della Repubblica, Glinciampi,
decretò
lo scioglimento della Camere, non senza contrasti. Una parte della
Sinistra, che aveva chiesto finallora le elezioni anticipate, ora voleva
evitarle ad ogni costo. “Ma come,” dichiarò al Telegiornale il portavoce
del NPC (New Communist Party) Vannuccio Chieti. "Ce lo stavamo
lavorando così bene, lo stavamo cuocendo a fuoco lento, sarebbe giusto
arrivato cotto alle elezioni, e ce lo levate dalle mani?” Brodi, Borselli e Tortelli, esponenti della sinistra
moderata, protestavano ad altissima voce. Il direttore del giornale
dell’opposizione, “E’ l’ora dell’alternativa”,
affermò Fausto
Bertinori, leader e ideologo della sinistra quasi estrema. “ Noi
proporremo: le trentacinque ore Senonché, al primo impatto con i sondaggi, le
risultanze apparivano diverse dalle attese del Presidente Bernasconi e
del sottosegretario Lettura. “Accidenti, leggi qua”, disse il fedele aiutante
di campo al comandante supremo. Internet era pieno di messaggi e di E-Mail. Tutti
gli scriventi e i riceventi erano contenti e anzi esaltati per quanto
era successo e mandavano dichiarazioni entusiaste ed adoranti per
Ernesto La Selva. Riportiamo alcuni esempi. “Ernesto, sei il nostro Guevara.”Ernesto Che, sei
tutti noi.” “Ernesto, sei il capo morale della Sinistra.” “Sei
il nostro Enrico Toti”. “Sei il nostro Balilla. Che l’inse?”
Quest’ultimo
messaggio riportava anche il file musicale
del famoso inno del Balilla: Fiero l’occhio-svelto il passo-del
ragazzo di Portoria- Al nemico. in fronte il sasso-agli amici tutto il
cor!” E continuava con la parodia:”Era bronzo-quel treppiede- che
il Bernasca si buscò-ma il ragazzo fu d’acciaio e la Patria liberò!”
Il Tavolo della Pace scrisse:”Dieci.
Cento, Mille
Treppiedi ”. I Blak Blok telegrafarono a Ernesto. ”Bravo, hai fatto
meglio che noi a Genova”. Fu aperta una sottoscrizione per
le spese legali e gli avvocati del Soccorso Rosso si misero a
completa disposizione. La Lista “Oliveto”
gli telefonò, per candidarlo
alla Camera: “Ti offriamo il collegio del
Mugello, il più rosso
e famoso di Enotria”. “Ma” rispose perplesso Ernesto,”mi ha
già
telefonato Bertinori e io gli avevo detto di sì.” “Non fare il coglione come al tuo
soliro. Il Mugello
è il collegio più sicuro, al cento per cento.” Prese la cornetta il presidente del NCP, l’on.
Max
Dell’Ama. “Non fare lo stupido”, esclamò perentorio,
mordendosi il baffetto. “E se accetti, io ti regalo anche la mia barca
Pegasus; è come nuova, io quest’anno la cambio ma per te va
benissimo.” Si volse indietro, all’amministratore del NCP: "E voi
mi date la differenza, inteso?” Alla fine, Ernesto accettò. Partì su una grande Mercedes blu, con l’autista: quando arrivò sulla piazza di Pontassieve, c’era la banda del Mugello, con le Mayorettes. Le ragazze vestivano una sgargiante divisa rossa, il cappello col pennacchio verde e avevano delle bellissime gambe scoperte fino all’inguine. La banda attaccò l’Inno dei Balilla, che era diventato la
sigla ufficiale di Ernesto. E lui salì sul palco. Il segretario della Lista Oliveto portò i saluti di
Brodi, il segretario del NCP lo presentò. E decantò i suoi meriti: “Che uomo!”, disse.”Altro che Della Pietra,
che abbiamo eletto e non sì è più visto; altro che quell’altro che
c’era prima, come si chiamava, Madonnina bona, già, Pino Arlàccoli,
che grazie a noi è andato all’ONU e non ci ha mandato neanche più
una carùùùtolina da Neviorche, che Dio lo fulmini, Madonnnina
Hapricciosa! Con Ernesto Che Guevara La Selva, siamo sicuri.
Questo qui ha salvato l’Enotria con un treppiede,
ha salvato la Democrassia e il Socialismo, chi sa cosa farà se lo manduiami a Monte Incintorio.” La folla, immensa, che riempiva la piazza e le strade di Pontessieve, applaudiva entusiasta. Quando Ernesto cominciò a parlare, il prete che era ovviamente di Sinistra, brodiano, newglobal, col maglione girocollo e allievo del Don Gallo di Genova, suonò le campane a festa, tirando la corda e contemporaneamente masticando un toscano. “Popolo del Mugello!”, iniziò Ernesto Che
Guevara. “Popol mio! Come sapete, io non so né parlare né scrivere ma
dipingere, scopare e tirare il treppiede. Il Treppiede, dico, e non
il Triciclo, che è troppo lento e non va né avanti né indietro,” “Bravo”, urlò la folla.”Diccelo ai quei somari
del NCP, il Treppiede è il simbolo giusto, altro che il Triciclo di
Brodi e di Tortelli. Passino” invocavano il segretario del Partito. ”Cambia
simbolo, vogliamo il Treppiede! E cambia anche il candidato,
altro
che primarie del menga, vogliamo il Che!” “Mugellisti!” riprese La Selva. “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi!”, disse ricordandosi una vecchia frase che ripeteva sempre il suo nonno di Mantua, che aveva fatto la Marcia vera, quella su Poma, del 1922. Fu un trionfo, tra le campane e gli applausi veniva
già il campanile.
In tal modo stavano andando le cose, quando il
Presidente Bernasconi ebbe
un’idea sensazionale. “Telefona alla mamma di La Selva, o al suo papà,
insomma a casa La Selva” , disse al sottosegretario Lettura. Mancava
una settimana alle elezioni. “Ma che ti prende, già le cose vanno
male”, rispose Lettura. Ma questi erano i colpi di genio del Cavalier
Bernasconi, che sempre gli spuntavano in capo nel momento del periglio. Muovendo a tutta spinta la Centrale della Presidenza,
ebbe finalmente al telefono la mamma del Che. “Oh, Dio, che vorrà il signor Presidente”, disse
la povera Agostina, tremando. “Signora bella”, annunciò a voce spiegata
Elvio Bernasconi.” Niente paura! Ghe pensi mi! Questa notte mi è
apparsa in sogno la mia zia suora. Era con la mia mametta. Elvio, mi ha
detto: ma non ti vergogni? Quel poveretto soffre e la sua mamma ha
paura. Sono pieni di rimorso, io lo so che sono andati a confessarsi dal
prete di Campo de Fiori e che si pentono. Tu li devi perdonare! E la mia
mametta ha aggiunto: Elvio, fa no el pirla, dai ascolto alla zia e che
ti ha fatto tanti miracoli, al tempo dei processi. Anche stavolta è lei
che ha deviato un millimetro il treppiede all’ultimo momento, in
quel momento stava pregando per te, a San Babila. La zia è meglio della
Madonna di Fatima, che deviò la pallottola a Papa Woytila. E tu non
vuoi perdonare? Su, mùchela , piantala. dagh on taj , rimetti a
loro i loro debiti come tu li rimetti ai tuoi debitori, liberati dal
male e cosi sia.” “E allora?” chiese tremando la signora Agostina.
“E
alura e alura, alura basta inscì. Lo perdono,
l’Ernesto, vi perdono, anzi le mando subito un panetun, ghe pias el
panetun? Macchè denuncia, che querela,
panetun!” La mamma La Selva si staccò piangendo dal
telefono. Si inginocchiò per ringraziare la Madonna e Suor Bernasconi: "E’ meglio quella suora che Padre Pio”,
raccontò poi alle amiche. Il Presidente si volse all’amico Lettura e gli
disse. “Hai visto. Altro che denunzia. Col panetun vinsuma l’elesiun.”
E infatti andò così. Il voto
anticipato fu un trionfo per il Presidente Bernasconi: 58 per
cento. La mossa del perdono aveva commosso tutta l’Enotria. Mentre la
lista dell’Oliveto continuava a minacciare fulmini e saette; mentre
il NCP predicava il disastro e i preti di Sant’Egidio minacciavano la
fine del mondo se fosse stato eletto Bernasconi; mentre Bertinori
ricordava a Bruno Vespa e al suo pubblico, le cifre dei disoccupati,
senza tetto, orfani, separati, divorziati, abortiti, mortammazzati,
diluviati, falliti, suicidi, diseredati, transessuali, bisessuali e
omosessuali, l’Enotria piangeva di commozione per il gesto del
Brusconi. Perfino il poeta Lucci si era quasi convertito e diceva agli
amici al Caffè delle Giubbe Rosse: “Ma allora, se è cosi’… Se
solo fosse un po’ più antifascista, ecco, se almeno celebrasse il
prossimo 25 aprile… Voglio invitarlo a Firenze, per commemorare
insieme quelli che ammazzarono Giovanni Gentile!” Perfino il giudice onorevole Della
Petra, in un
comizio a Boscotrecase, disse:” Embè, se a lui vabbene così, perché
cac… devo prendermela calda io? Ma che me frega ammè.” Insomma, come aveva previsto Bernasconi, il popolo
gli aveva guardato negli occhi, e aveva capito che lui non voleva male a
nessuno, anzi voleva bene a tutti. Il povero Ernesto era rimasto
spiazzato. A quel punto,
inviò al Presidente una
lettera di scuse: “Al Presidente de li
presidenti del Consiglio e
del Malan, Bernasconi Elvio. Me so sbajato, me scuso e me
spiasce. (Il La Selva
scriveva come parlava) Spero proprio che v’abbiano riformato la
testa, così tornerete a lavorà pe la nostra Patria bbella, insieme a
Glinciampi, a Bossi, al Papa e a tutte l’altre Autorità del Regime.
Che Dio vi benedica, viva la Repubblica, viva la Chiesa
Catalitica, viva il NCP. Tutti uniti, come predica gni giorno il nostro
amato Presidente del Quirinale , fiduscia e ottimismo, che se stamo
tutti uniti le cose cambieranno, e neanche la Cina potrà farci un
baffo. In fede, vostro Ernesto.” Il Presidente Elvio riunì il
gruppo dei nuovi
eletti e disse:”Squadra vincente non si cambia. Avanti per un altro
decennio". Brodi si ritirò in convento sulle colline di Reggio
Emilia, al Guardasone; e la signora Fulvia mandò un sospiro di
sollievo, dopo tanti anni. Romano avrebbe preferito
rifugiarsi nell’eremo
di Dossetti, sopra Bologna, ma i monaci gli chiusero la porta in
faccia.”Così impari a pardere”, gli dissero in latino. “Deus dementat quos perdere
vult”. Max Dell’Ama s’imbarcò sul Pegasus II per un
giro del mondo in solitario: “Almeno ci ho rimediato la barca nova. Co’ la salute e na barca nova ce fai er giro
der monno.” Tortelli e Borselli si misero finalmente insieme e
fondarono un partito laico- socialista, con un plafond del
due e mezzo per cento. Marco Fellini accolse pietosamente
Clemente Mastello e Cirino Pomicidi, al quale disse:”Beato chi si
rivede!” Marco Pianella
portò la Radio Radicale al Cairo in regalo a Emma Crudeli: “Parla tu,
“le disse.”Alla notte, io non ho più fiato.” Ma una cosa andò avanti implacabilmente: la
giustizia. Il nuovo vecchio ministro della Giustizia e del Culto,
Castello, riuscì stavolta a far nominare un nuovo PG a Poma, che prese
in mano le indagini sull’attentato a Bernasconi.
Il nuovo PG, Plico
Mirandola, aveva una memoria e un cuore di ferro. “Il procedimento in Enotria non è facoltativo, è
obbligatorio”, disse. “Il processo Bernasconi-La Selva era appena
nella fase iniziale, non è stato archiviato e perciò va ripreso e
terminato.” In punto di diritto, non c’era niente da
obbiettare. Dopo una notte insonne al Palazzo di Giustizia a
riguardare le carte del procedimento, decise l’arresto del La Selva. “Ho rivisto tutti gli interrogatori, mi sono fatto
portare a casa un trolley di faldoni. Il reato è gravissimo,
l’imputato è in libertà e può reiterarlo o fuggire. In custodia
cautelare, di volata!” “Ma almeno gli arresti domiciliari!”, protestò
l’avvocato Pisapija, che stavolta nemmeno era stato eletto.”Ernesto
s’è pentito,e poi “Ma che domiciliari, ma che mamma!”, sbuffò il
PG Plico Mirandola. “Ma dove credete di essere? Qui siamo in Enotria,
patria del diritto, dove la legge è uguale per tutti, la loi c’est la
loi.” Ernesto La Selva era moralmente distrutto. Dopo la telefonata di Bernasconi alla mamma, dopo la sua lettera di scuse, non era stato eletto. Per la prima volta, nel collegio del Mugello la Sinistra era scesa dal 70 per cento al 40 per cento dei voti. Aveva vinto un certo Condorelli, fabbricante di torroni, venuto dalla Sicilia e inviato speciale dell’on. Micocchè. Non spiccicava una parola d’italiano e nanche di siciliano, semplicemente non parlava. Alzava il mento e faceva:” Tzè” o “Nghè”, i suoi galoppini partivano con borse enormi e gonfie di chissacché. Con quel metodo aveva raccolto il 55 per cento. Intenet era nuovamente
impazzita, ma questa volta di insulti, infamie, volgarità. “Venduto”, scrivevano.”
Rovina della
sinistra” “Agente della CIA” (questa era un pezzo che non si
sentiva). “Il treppiede mettitelo dove sai”. E altre sconcezze del
genere. Chiuso Ernesto nel carcere di Madonna
Coeli, isolato e in cella di sicurezza, il
pm Plico tentava di estrargli una qualsiasi confessione, con la tortura,
materiale ma soprattutto psicologica. Ernesto taceva piangendo. “E vabbè, pazienza, ritorniamo domani”, diceva
Plico Mirandola, freddamente. “Lo so che l’affare era organizzato. Non era uno
scherzo. Chi è stato? Chi ti ha pagato?”, così lo incalzava il
giudice Plico. Il
giorno 18 aprile 2006 , il Presidente Bernasconi
stava per pronunciare il discorso d’investitura alla Camera. Quasi di
corsa, un commesso gli portò un biglietto, da parte del
sottosegretario Lettura, che ancora si trovava dal parrucchiere della
Camera per gli ultimi ritocchi. Sul biglietto era scritto: “Mi telefonano ora che
il La Selva è stato trovato impiccato in cella”. Bernasconi strappò
minutamente il biglietto e disse al ministro degli esteri. Frini, che
gli sedeva accanto:” Sempre rotture, non mi lasciano mai lavorare in
pace.” Si alzò e iniziò il discorso. Era un testo bellissimo, adatto
alla circostanza, ci aveva lavorato una settimana insieme ai gostwriters;
purtroppo, il biglietto lo aveva turbato e si perdette metà
dell’effetto mediatico alla televisione. Un peccato. L’Ernesto fu trovato appeso alle sbarre, nudo.
Ispezionando il cadavere, il medico legale si avvide che il povero
Ernesto, ormai rigido,
MATER MATUTA FECE “E che diavolo significa Mater Matuta?”, si
chiese il comandante del Ross: ma il giudice Plico Mirandola, colto e latinista, aveva una pronta risposta: “Mater Matura era la dea romana e prima ancora
etrusca, della fertilità. Ce n’è ancora una specie di statua o
sarcofago al Museo di Berlino. Ma FECE che cosa, se si è suicidato.
Ammenocché non l’abbiano ammazzato….” “Lo escluderei”, intervenne
il comandante.”Non
c‘è altra traccia, nessun segnale, niente.” Era evidente che l’Ernesto, suicidandosi, aveva
voluto lasciare un messaggio d’accusa vero qualcuno: ma chi ? Carabinieri e magistrati indagarono a fondo, ma non
scoprirono nulla d’altro. Che significava Mater Matuta? Andarono ai
musei vaticani, al Foro Pomano, lessero e rilessero l’elenco
telefonico, Internet. Su Internet trovarono invece una curiosa
indicazione
per FECE. Non c’entrava niente col verbo Fare. Era un’associazione
non governativa, che si occupava di fecondazione assistita. Ma FECE ,
perché? Il giudice Plico andò all’indirizzo del FECE. Era a Poma, in
via Lucullo. Rivolse la domanda alla sola impiegata presente, la
telefonista. “Che
significa FECE?” “Niente di speciale”, rispose.”Significa
Fecondazione Eterologa.” “Non può essere”, diceva Plico nel letto, in
dormiveglia, parlando con la moglie. “E che c’entra FECE con
l’assassinio o il suicidio del La Selva?” Si fece portare al palazzo il presidente del FECE,
l’ avvocato Ferrante Aperti, e lo minacciò apertamente di reclusione.
“Ma che ne so io”, protestò.”
Mai visto ‘sto Ernesto La Selva.” Al terzo
interrogatorio, Plico gli mostrò la foto
del bigliettino famoso, trovato in mano al povero Ernesto. “Mater Natuta, Mater Matuta….”
biascicò. “Già,
Mater Matura è una clinica tedesca dove mandiamo molte signore che
vogliono l’inseminazione eterologa. Già, a Berlino.” Il dottor Plico ci pensò alcuni giorni, poi fece richiamare il presidente della FECE: “Se non vuol finire in galera per un po’ di tempo, scriva una lettera di presentazione per una signora che le dirò, e telefoni ai suoi amici di Berlino.” Due giorni dopo, il commissario signora Serena Malizia, della polizia giudiziaria, partiva per Berlino in compagnia di un tenente dei carabinieri, in borghese ambedue, ovviamente. Era davvero una bella coppia, non più giovane, ma aitante, benportante, distinta. Lei aveva due splendide gambe e le mostrava con compiacimento. “Finalmente”, disse al tenente. "Un giorno senza divisa.” “Certo che la polizia di Stato ha fatto dei bei progressi in questi ultimi anni ”, sorrise lui. Davvero sembravano una coppia benestante in cerca di figli illegittimi. La clinica Mater Matura era in una stradina dopo la Chiesa del Dente Cariato, nel cuore storico di Berlino. La chiamavano Chiesa del Dente Cariato perché non l’avevano ricostruita, era rimasta come dopo il bombardamento, un grande rudere col campanile monco, appunto il dente cariato. Giunsero alla clinica con un taxi dall’aeroporto. “Ha telefonato per noi il presidente della FECE di Poma”, disse Serena. L’addetta all’ingresso s’informò e li fece entrare. L’ascensore li portò a un piano, dove li attendeva un dottore, giovane, in camice bianco, che li condusse nell’ufficio di un professore barbuto. “Sono il marito della signora, disse il tenente che parlava qualcosa di tedesco. “Non si sforzi, sono enotriano,” disse il barbuto. “E anche il dottor Calì qui presente, e molti di noi.” Serena Malizia sorrise. "Mi fa piacere. Ma come mai tanti enortiani?” “Perché come sa, non possiamo operare in Enotria, data la maledetta legge reazionaria di quell’odioso Bernasconi. Ma siamo spesso anche in Italia, in cliniche private, per le fecondazioni monogame, gli aborti e altre operazioni del genere.” Serena riuscì a farsi dire altri nomi di medici e di alcune cliniche pomane. Poi presero appuntamento per l’intervento il giorno successivo e se ne andarono. In fretta, e corsero a prendere un aereo prima che i medici ci ripensassero. A Poma, il pm Pico Mirandola firmò le comunicazioni giudiziarie per i medici: Fabrizio Pirovamo, Mumzio Calì e Vincenzo Provenzano. Attese pazientemente che i tre rientrassero in Enotria, e mandò la polizia giudiziaria, anzi proprio la squadra omicidi, a prelevarli nelle rispettive cliniche, una di Poma e due di Palermo. Quando li ebbe nelle mani, cominciò l’interrogatorio. Uno ad uno, separatamente. “Come mai lo sciagurato Ernesto La Selva si è impiccato, con in pugno il bigliettino, con l’indicazione della Mater Matura e della FECE?”: fu questa la domanda di base. “E che ne so?” Fu la prima risposta di tutti e tre i dottori, indistintamente. La musica cambiò quando la Guardia di Finanza scoperse nei conti correnti delle cliniche, alla stessa data, un ammanco, non vistoso ma inspiegabile, di denaro. Non era una grande cifra, ma era misteriosa. Successivamente la Guardia di Finanza accertò, per quello stesso periodo, un improvviso rigonfiamento nel conto corrente di un noto Importatore di droga dalla Colombia, già arrestato più volte. Gli assistenti di Plico, e prima di tutti la commissaria Malizia, che si era appassionata al caso, cominciarono i raffronti e i confronti. Plico era scettico: ”Ma che c’entrano questi sporcaccioni della fecondazione eterologa, con la droga? Mi pare una traccia molto labile.” La dottoressa Malizia insistette e con l’aiuto assai impegnato del tenente, promosso capitano, dei carabinieri, del quale era diventata intima amica, scoprì numerose coincidenze e concomitanze. “Sì,” diceva a letto, abbracciandola durante una sosta, breve ma opportuna, il bel capitano. “Ma come e dove hanno conosciuto il La Selva, e come l’hanno persuaso? Gli hanno fatto il lavaggio del cervello; ma perché?” Risultò così che i tre, d’accordo con altri medici ginecologi più importanti e ricchi di loro, avevano finanziato la campagna contro la legge della fecondazione assistita. Avevano inizialmente cercato di parlarne con l’on. Marco Pianella e con l’Emma Crudeli. Ma l’Emma, ch’era di naso fine, disse a Marco: “Che brutte facce, Intervistiamoli per Radio radicale, perché ho visto che sono competenti, ma poi basta. Nelle loro cliniche questi fanno intrugli pericolosi, praticano aborti al settimo mese, temo perfino che importino droga.” “La Madonna, non scherziamo”, Marco rispose preoccupato.”Anzi, voglio sentire la mia vecchia amica dottoressa Malizia, commissaria di polizia, che so sta indagando proprio su questi traffici.” Quando seppe dalla Malizia del dialogo con Marco Pianella, tanto bastò al giudice Plinio Mirandola per convocare i clinici: “Questa volta non ci sono storie, mi dovete dire tutto.” Durarono ventiquattrore, chiamarono l’avvocato. Poi cominciò a cedere il più giovane, Calì. “Erano mesi che nelle nostre riunioni, sia a Poma che a Berlino, i mie vecchi maestri protestavano contro il Presidente del Consiglio. E’ un maledetto bigotto, un reazionario, dicevano. Con lui, l’eterologa non passerà mai. Sono miliardi, ragazzi. Il giorno che la Camera votò la legge, esplosero dalla rabbia. Bisogna farlo fuori, dicevano. Io cercavo di calmarli: vedrete, quando ci sarà Brodi cambierà, la sinistra farà passare l’eterologa. Tsé, dicevano, campa cavallo. E poi Brodi è un bigotto peggio di Bernasconi. Non farà mai un dispetto al Cardinale Ruini, anche se lo odia cordialmente, dicevano. Bisogna intervenire adesso. Signor giudice, io non c’entro niente, mi hanno utilizzato solo come postino. Un giorno mi hanno consegnato un pacco, da portare a un certo Ernesto La Selva, in Piazza Vascona. Io non sapevo cosa ci fosse dentro. Il pittore mi accolse con evidente piacere. Sì, disse, questo sarà un bel regalo per il mio Comitato Blocche-Blecche, meglio che se fosse moneta contante. La taglieranno e la venderanno cara, la faremo distribuire dai marocchini della Caritas. Mi ha salutato, e non l’ho più rivisto. Solo quando ho letto la storia dell’attentato sul giornale e l’ho visto in televisione, mi è venuto il sospetto. E dopo, quando ho saputo del suicidio. Evidentemente si era pentito, era angosciato, provava rimorso e paura.” “Già”, concluse Plico Mirandola, chiudendo il faldone con una decisa manata.”Già, paura della Mater Matuta.”
(Il presente racconto si trova nel sito Web :www.veneriocattani.it,alla pagina “racconti”.Il file è musicale ed è scaricabile gratuitamente)
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