L’ULTIMO ATTO

 

"Domani andrò a Malacappa. Abbiamo fatto grossi lavori in giardino, abbiamo speso, almeno per le nostre scarse finanze, molti quattrini (…) forse non ci saranno più le rose davanti alla casa (…) tanto fra le rose non c’è più Torquato Nanni che legge Platone (…). Stava lì, seduto su di una seggiola, la testa leonina al sole, minuto, elegante, vestito di scuro, i begli occhi chiari assorti nella lettura e la pipa spenta tra la barba ricciuta ormai grigia; poi all’improvviso si alzava e andava in cerca di mio padre per commentare qualcosa che lo aveva colpito e mio padre, enorme e massiccio vicino a lui, le maniche della camicia rimboccate sugli avambracci, il braccio anchilosato appoggiato sulla schiena, lo ascoltava, rispondeva e soffriva un poco perché Nanni nella foga del discorso agitava pericolosamente il libro e il papà teneva ai bei libri e alle belle rilegature".

Con questa commossa pagina comincia il suo libro testimonianza, che abbiamo ricordato all’inizio in riferimento ai Diari di Pietro Nenni, Giancarla Arpinati. Tra l’altro il libro si apre con una specie di delega-prologo, uno stralcio di lettera di Torquato Nanni a Leandro Arpinati, del 2 ottobre 1927: "Debbo convincermi che tu non sei il "politico nuovo", quasi che oggi la politica che si vive non fosse la solita meschina politicaccia. Tu sei il "politico dell’avvenire", se non è ingenuo cullarsi ancora nell’illusione anzi nell’utopia, di un avvenire in cui la politica sia fatta con la coscienza, con il cuore e anche con un tantino di generosità". Nanni si rendeva conto di illudersi, ma non s’arrendeva allo scetticismo.

Torquato Nanni, con tutta la famiglia, era arrivato alla Malacappa alla fine di marzo 1943. Sapeva di trovar rifugio presso l’amico fraterno ma avrebbe preferito certo rimanere a Santa Sofia. A persuaderlo fu l’amico comune Tonino Spazzoli, che conosceva la condizione pericolosa dei Nanni a Santa Sofia, dove sempre maggiore si faceva intorno la pressione dei fascisti, anche perché il paese era diventato un crocevia, sia di partigiani e fuggiaschi che salivano in montagna, sia di fascisti e tedeschi che davano loro la caccia. E infatti pochi giorni dopo il trasloco a Malacappa, la casa di Nanni fu devastata e incendiata dai repubblichini.

Ma per contro, anche Malacappa era diventata un crocevia. La generosità di Aleandro Arpinati e di sua moglie Rina l’aveva trasformata in un centro di raccolta per sfollati e sbandati. Oltre alla famiglia Nanni, sette persone, c’era la famiglia di Mario Lolli, c’erano famiglie di contadini della zona e Arpinati oltre a ospitarle aveva fatto costruire con il loro concorso una grande conigliera per conigli d’angora, che le donne accudivano e dai quali filavano la lana allora particolarmente preziosa. E c’erano, tra gli altri, nascosti in solaio due paracadutisti italo-americani. I due, Augusto Di Luzio e Giuseppe Toffoli, erano stati lanciati dall’oss con una radio trasmittente; era una delle molte missioni paracadutate oltre le linee dagli alleati. I due erano atterrati, si fa per dire, in pieno Po, la radio pareva irrimediabilmente perduta e i giovani si erano trascinati passo passo fino alle case di Malacappa. E c’era ospite il professor Dino Zanobetti, dirigente del Partito d’azione e ci furono di tempo in tempo gli Spazzoli, i Maccaferri, alcuni della famiglia Corbari, il socialista Bassi.

L’azienda di Arpinati, sotto l’argine del Reno era diventata una piccola fortezza, un avamposto. Arrivavano alla Malacappa i boati ossessionanti dei bombardamenti su Bologna, sulle linee ferroviarie verso Ferrara e verso Modena, i racconti dei rastrellamenti e delle fucilazioni.

Arrivò anche la notizia dell’arresto di Tonino Spazzoli, della morte del fratello e di Corbari e della sua banda a Forlì. Quando Arpinati e Nanni seppero di Spazzoli discussero animatamente su cosa fare per liberarlo. Già la banda Corbari si era sacrificata appunto nel tentativo di forzare il carcere di Forlì; ma era stata presa in contropiede dalla brigata nera e dai tedeschi e Corbari, Arturo Spazzoli, Ines Versari e altri erano finiti impiccati ai lampioni della piazza di San Mercuriale. Arpinati e Nanni non erano certo in grado di tentare una simile impresa militare.

Si discusse, insieme all’avvocato Maccaferri, di mandare a Gargnano, da Mussolini, Arpinati per chiedere al Duce la liberazione di Spazzoli. Ma si concluse che sia Arpinati che Nanni erano ormai troppo pregiudicati presso Mussolini e che il loro intervento sarebbe stato controproducente. Si decise allora di delegare l’avvocato Maccaferri. Secondo un’altra versione, Arpinati accompagnò in auto Maccaferri a Gargnano ma mandò il solo Maccaferri a parlare con Mussolini. L’avvocato bolognese riuscì a farsi ricevere ma Mussolini, sia che se ne fosse veramente interessato o che fingesse, rispose che non c’era più niente da fare e che non dipendeva più da lui; ciò che appare falso perché Spazzoli era tenuto prigioniero dai fascisti e non dai tedeschi.

Così Tonino Spazzoli fu portato prima a vedere il cadavere del fratello e poi fu impiccato sulla strada del suo paese natale di Coccolia, tra Ravenna e Forlì. Più tardi, anche l’avvocato Maccaferri verrà fucilato dai fascisti a Bologna.

Arpinati e Nanni continuavano a incontrare dirigenti attivi della Resistenza e in particolare socialisti come Trebbi e per quel che potevano contribuivano a sostenere la Resistenza. Arpinati fu anche avvicinato da esponenti comunisti, sia del partito che dell'organizzazione militare. Ma pur rimanendo in buoni rapporti, Arpinati non volle né aiutare finanziariamente né prendere posizione con i comunisti ai quali continuava a dire apertamente ciò che aveva sempre detto: che non era più fascista, che era da tempo antifascista, ma che rimaneva anticomunista. E’ impossibile dire se questo rifiuto di allinearsi con i comunisti gli sia stato messo nel conto finale.

E qui si apre l’altro interessante interrogativo: Arpinati avrebbe potuto salvarsi? La risposta è che sicuramente si sarebbe salvato se fosse fuggito per tempo all’estero, come molti altri a partire dal suo conterraneo, Dino Grandi. Come aveva detto Mussolini, Arpinati si era illuso. Egli contava sul fatto di essere da molto tempo ormai, fuori dal gioco; pensava che la sua condizione di perseguitato dal Regime fosse nota a tutti, o perlomeno ai capi dell’antifascismo; sapeva di aver fatto tutto il possibile, dall’8 settembre ’43 in poi, esponendosi pericolosamente, in favore degli antifascisti, dei prigionieri fuggiaschi e delle famiglie della zona. Per altro erano passati solo vent’anni dal tempo delle sue azioni squadristiche; erano troppo pochi, la gente ha buona memoria di certe cose, i rancori sono lunghi a sopire, e in provincia di Bologna erano ancora vive e vegete molte vittime degli anni venti e soprattutto molti dei loro figli. Rimanere fermo a Malacappa era azzardato: glielo aveva detto anche Mario Missiroli che nell’incontro di addio lo aveva abbracciato piangendo e gli aveva caldamente raccomandato di fuggire all’estero o almeno di allontanarsi per qualche tempo da Bologna.

Ma Arpinati non era Dino Grandi, che era abituato a vivere all’estero e che aveva dappertutto soldi e amicizie. Arpinati non aveva contatti fuori dall’Italia; si sarebbe salvato se avesse avuto l’avvedutezza di consegnarsi immediatamente agli americani, come fecero molti gerarchi della Repubblica, lasciando passare almeno il primo momento della tempesta.

E così, avvenne che, il mattino del 21 aprile passarono sulla strada provinciale i primi carri armati alleati. Secondo quanto ricorda Torquato jr. la prima a passare fu una jeep con a bordo dei giornalisti americani. La giornata trascorse felicemente e i primi sfollati cominciarono a ritornare alle loro case; la notte trascorse insonne, con Arpinati e Nanni a discorrere dei loro progetti politici e personali. La mattina dopo, 22 aprile, erano rimasti solo le famiglie Arpinati, Nanni, Lolli e i due paracadutisti.

I tre amici stavano, come al solito, fervorosamente discutendo e passeggiando per un sentiero della fattoria: una "cavedagna" come si dice da quelle parti. Improvvisamente entrò un camioncino (requisito all’UNPA, la protezione antiaerea), dal quale scesero sei armati, quattro uomini e due donne; erano vestiti approssimativamente da militari, coi giubbotti kaki di tipo inglese che portavano i partigiani. "Dov’è Arpinati?" chiesero. "Arpinati sono io", rispose facendosi avanti.

Sempre secondo il racconto (si potrebbe dire il film della memoria) di Giancarla uno dei partigiani puntò il mitra contro la fronte di Arpinati. "Dai, dai, spara" gridò una delle due donne.

Arpinati scostò lentamente, con una mano, la canna del mitra dicendo: "Aspettate, ascoltate un momento!". In quell’attimo Torquato Nanni si precipitò per fare scudo all’amico, gridando: "Ma cosa fate? siete impazziti?" Fu colpito da un secondo partigiano col calcio del mitra, steso a terra: poi il killer si piegò, gli puntò il mitra dietro l’orecchio e fece partire un solo colpo, mortale. Mario Lolli si era buttato contro un terzo armato, afferrando la canna del suo mitra, cercando di strapparglielo; fu ferito e tentò di fuggire verso casa, con alle spalle l’uomo che lo rincorreva e che lo colpì ripetutamente. Rimarrà a lungo steso dissanguandosi e solo perché più fortunato degli altri due amici, si salverà.

L’assassino di Arpinati gli spara una raffica in pieno volto tanto che la figlia, poco dopo, quando si piegherà su di lui, non ne vedrà più il viso. Le donne si sono rifugiate in casa, le due partigiane gridano agli uomini di ammazzare tutta la famiglia e una di loro lancia una bomba a mano che per fortuna non esplode. Gli uomini non dettero retta alle due esagitate e si fermarono a spogliare i cadaveri e il ferito di quel che portavano addosso, soldi, orologi, poi il gruppo se ne andò dopo aver salutato le donne della famiglia con il pugno chiuso.

I due morti e il ferito furono dalle donne trascinati nella casa e per alcuni giorni i cadaveri rimasero insepolti perché, a quanto racconta Iraci, "coloro che avevano preso il potere proibiscono all’impresa di pompe funebri di fornire le bare". Sempre secondo Iraci, Mario Lolli stava per morire perché nessuno si azzardava a portare soccorso e fu salvato da un’ambulanza militare americana che lo trasportò in un ospedale vicino. Anche Giancarla conferma che il medico del paese non si presentò e che il solo personaggio ufficiale che nel pomeriggio arrivò, fu il parroco che benedisse i cadaveri.

La radio di Bologna alla sera diede l’annuncio della fucilazione del "gerarca fascista Arpinati". Quanto a Torquato Nanni, Bruno Vailati commenterà: "Nanni poteva tirarsi da parte, ha fatto un gesto da impulsivo e da romagnolo come lui era".

L’eccidio Arpinati-Nanni (ricordato da alcuni storici della Resistenza e in particolare da Luciano Bergonzini e da Sauro Onofri) aprì la serie degli eccidi comunisti in Emilia: si può dire che il triangolo della morte ebbe il suo primo angolo a Malacappa.

I colpevoli non furono mai identificati, né tantomeno perseguiti dalla giustizia. Luciano Bergonzini, storico della Resistenza bolognese, esclude da ogni responsabilità il CLN; e dal punto di vista formale ha certamente ragione. Di questo organismo clandestino l’unico superstite era rimasto, fino a qualche anno fa, Angelo Salizzoni, deputato democristiano che fu sottosegretario alla Presidenza di Aldo Moro. Salizzoni escludeva che del caso si fosse parlato in CLN e certamente era attendibile, ma Salizzoni era democristiano e certe decisioni non erano prese in presenza sua. Bergonzini riassume la questione accennando a un "partigiano locale" che già si era macchiato per "iniziative individuali".

Agostino Iraci e Giancarla Arpinati sostengono invece con forza che sia i mandanti che gli esecutori erano comunisti perfettamente consapevoli di quel che facevano e che avevano avuto ordini precisi dal PCI. Del resto c’era stato nei giorni prima il famoso ordine decretato dal CLN dell’alta Italia, in base al quale lo stesso Mussolini e gli altri gerarchi fascisti furono fucilati. Ma in più c’era stato il preciso ordine di Ilio Barontini ("Stampare subito") che era il capo militare del PCI in Emilia, e dunque quello che contava in realtà. Barontini, nato a Livorno, era stato un capo comunista anche in Spagna, il vice di Pacciardi e il comandante effettivo nella battaglia di Guadalajara. Era stato elencato a suo tempo tra i "quaranta spietati", la lista redatta dalla commissione speciale del Dipartimento di Stato. La vita di Barontini fu avventurosa ed eroica, ("leggendaria", come disse Pietro Secchia commemorandolo), ma egli fu il prototipo del perfetto agente stalinista. Barontini (Dario) arrivò a Bologna nella primavera del 1944, prendendo il posto di Giuseppe Alberganti. Fu l’organizzatore dei GAP in alta Italia e specie in Emilia. Era questo un incarico di assoluta fiducia perché i GAP (Gruppi di azione partigiana, o patriottica) erano il nocciolo terrorista della Resistenza. Nel giugno Barontini fu nominato capo del CUMER, cioè della branca militare del CLN in Emilia e naturalmente continuò a controllare direttamente i GAP.

Il territorio di Argelato e quindi anche Malacappa ricadeva sotto la settima brigata GAP. Arpinati ebbe un incontro col comandante della settima, Franco Franchini, detto "Romagna". Questi fra l’altro lo assicurò (stando però a testimonianze posteriori alla Liberazione) che il GAP era al corrente della sua attività antifascista e per quel che dipendeva da lui non gli sarebbe stato fatto alcun male. Sfortunatamente per Arpinati, il "Romagna" cadde poco dopo in uno scontro con i fascisti presso Castelmaggiore. Barontini invece morì nel 1951, senatore, a causa di un banale incidente automobilistico.

Iraci fornisce poi una specificazione politica: i comunisti ammazzarono Arpinati e Nanni, a causa dei loro rapporti con i socialisti e in genere con gli antifascisti non-comunisti. Riporta un documento, una dichiarazione di Verenin Grazia pubblicata non proprio nel volume di Luciano Bergonzini: La Resistenza a Bologna, del 1967. Grazia fu segretario del CLN, poi deputato del PSI nel fronte popolare, poi segretario della Lega cooperative. Era socialista ma era noto per essere un uomo di fiducia dei comunisti.

Grazia racconta a Bergonzini una lunga storia che partiva da Ravenna (Benigno Zaccagnini) e finiva a Bologna. Secondo il Grazia antifascisti non-comunisti stavano informando gli alleati sulla gravità del pericolo comunista in Emilia e avevano parlato "addirittura" di rimettere in circolo Leandro Arpinati, che era ritenuto capace di suscitare notevoli forze sia in campo antifascista che in campo anticomunista: e che gli alleati non fossero rimasti insensibili a tali progetti. E d’altronde di questi progetti e tentativi abbiamo avuto materia per parlarne nelle fasi precedenti.

"Fortuna", dice Grazia nell’intervista, "che tali opinioni non trovavano seguito e per quanto riguarda i nostalgici arpinatiani provvide a fugare ogni illusione un gruppo di gappisti che all’alba del 21 aprile si presentò alla tenuta di Malacappa, dove l’ex ras di Bologna aveva la sua residenza, giustiziandolo prima che arrivassero gli alleati. Nella villa, suo ospite, si trovava l’avvocato Torquato Nanni di Santa Sofia, un vecchio socialista con il quale Arpinati aveva stretti rapporti di amicizia. Anche l’avvocato Nanni seguì la fine dell’amico". C’è da notare alcuni vocaboli, come "fortuna", "giustiziandolo", "gappisti" che denotano come il Grazia (segretario del CLN) fosse sicuro della "legittimità antifascista" dell’eccidio; e per Iraci la testimonianza di Grazia è la conferma che il delitto fu politico, che fu premeditato e che fu ordinato dal PCI.

E tuttavia su questo eccidio ci furono, sia in buona fede che sparse artatamente, diverse e curiose versioni. Esemplare da questo punto di vista il caso che chiameremo dello "storico

Americano". Dopo che per molto tempo la memoria di Arpinati era stata lasciata in pace, nell’aprile 1992 uscì sul "Resto del Carlino" uno scoop, un servizio, insomma una specie di rivelazione sull’assassinio del 22 aprile 1945. O meglio, più che sul fatto, sulle motivazioni, sulle cause del fatto.

In data 4 aprile il "Carlino" pubblicava, a firma di Gianni Boselli, un lungo articolo che riferiva delle scoperte di uno studioso dell’università di Atlanta, il professor Stephen Whitaker, appunto sull’affare Arpinati-Nanni. Il "Carlino" precisava che il Whitaker era uno studioso del fascismo e che proprio per interessarsi ad Arpinati e a Nanni aveva soggiornato a lungo in Romagna, esattamente a Casola Valsenio.

Questo studioso americano avrebbe rintracciato a Washinghton, in microfilm, documenti molto compromettenti sulla vita di gerarchi fascisti (e anche di fuoriusciti antifascisti) a suo tempo raccolti dal ministero dell’Interno sotto la direzione di Arpinati, quando questi era sottosegretario. Questi documenti erano di tale gravità da poter essere utilizzati da Arpinati a fine di ricatto. Secondo il Whitaker, pertanto, gli assassini di Arpinati e Nanni non erano comunisti né pseudopartigiani vendicatori, ma agenti fascisti mandati da qualcuno che temeva di essere ricattato da Arpinati dopo la Liberazione. Lo scoop appare, ammessa la buona fede del Whitaker, un grosso abbaglio. Anzitutto pare che Whitaker sia un geologo e non uno storico: ma non è detto che talvolta non siano più veritieri i geologi che gli storici. E’ un amante della Romagna e dei romagnoli, i quali sono raccontafavole eccezionali. Il Whitaker gira per la Romagna in bicicletta, salite comprese (e a Casola Valsenio la salita è forte) ed è stato a visitare sia Giancarla Arpinati che Torquato Nanni jr., cercando di persuaderli della sua tesi. Certo, Arpinati, quando era sottosegretario con ampi poteri, avrà avuto a disposizione, fior di informazioni. Arpinati non era carattere da ricatti, ma che all’epoca del ministero potesse pensare di tenere dei fascicoli per propria difesa, questo è possibile. Tuttavia non li adoperò quando gli sarebbero stati utili, come nel momento dell'attacco di Starace. Giancarla Arpinati ricorda che la madre Rina aveva visto il marito bruciare molte carte, quando avevano traslocato da Roma. Ma che le avesse a Malacappa (dove poteva essere perquisito dalla polizia o peggio dai fascisti in ogni momento) e per questo agenti fascisti lo avessero ucciso, appare inverosimile. In ogni modo, non si capisce perché non l’avessero fatto prima del 22 aprile, quando ancora erano i padroni della piazza e in grado di fare quello che volevano. Quando uscì lo scoop sul "Carlino", Giancarla Arpinati rispose con una intervista pubblicata il 23 aprile 1992. In essa ripete la sa versione sia sull’assassino che sulle cause e fa, tra l’altro un nome, quello di Umberto Borghi, nome di battaglia Ciro, del quale ricorda la fuga in Jugoslavia, poi in Cecoslovacchia, organizzata, come sempre avveniva in questi casi, dal PCI.

Una tesi interessante, somigliante a quella dello studioso americano ma esattamente contrapposta e altrettanto poco attendibile è quella di Edvige Mussolini. L’intelligente e devota sorella di Benito raccolse con l’aiuto della figlia le sue memorie in un libro, biografico e agiografico e però pieno di testimonianze, poco prima di morire. Il libro, Mio fratello Benito, venne pubblicato da "La Fenice" di Firenze, nel 1957. Tra l’altro, in esso Edvige ricorda il proprio figlio ventenne fucilato anch’egli il 25 aprile 1945 a Bergamo; il ragazzo era nella Guardia repubblicana ma certamente venne fucilato al solo titolo di essere nipote del Duce.

La Mussolini si sofferma dapprima sulle due figure anomale nel mondo politico di quegli anni, di Arpinati e di Nanni, dei quali dà un giudizio grandemente positivo sotto l’aspetto umano e morale, meno sotto quello dell’idoneità politica. Tra parentesi, non v’è nel libro traccia dei suoi dubbi su Arpinati e specie sull’attentato Zamboni, di cui pure si è molto parlato. Poi si diffonde sulle ragioni della loro eliminazione, che afferma di non comprendere bene. "Insieme, Arpinati e Nanni saranno uccisi presso Bologna, in modo strano, nel sanguinoso aprile 1945 e i motivi della loro uccisione restano misteriosi (…) L’ex sottosegretario agli Interni era da troppo tempo lontano dal governo e dal partito (…) e l’avvocato Nanni non era in fin dei conti mai stato fascista. Ma è verosimile che nel lontano periodo in cui Arpinati aveva avuto a disposizione somme notevoli per procurarsi all’estero, nell’ambiente dei fuorusciti, informazioni utili al fascismo e allo Stato, fossero germinate buone ragioni perché dopo anni, a qualche rappresentante degli ambienti suddetti ritornano in Italia al seguito degli stranieri vittoriosi, e già in piena azione epurativa, premesse sopprimere sbrigativamente lui e con lui chi fosse partecipe dei suoi segreti. Allusioni di questo genere corsero allora in Emilia e in Romagna; si raccontò che Arpinati e Nanni avessero espresso il preciso intendimento di fare rivelazioni tali da sorprendere (…) Si sente una strana fretta nel modo in cui i due amici furono uccisi e nel modo in cui si cercò di farli dimenticare".

Particolarmente appropriata è quest’ultima affermazione di Edvige: "si cercò di farli dimenticare". La tesi che si adombra è dunque che ci fosse qualcuno tra i "fuoriusciti rientrati" che avesse un forte interesse a far sparire delle tracce; evidentemente, tracce di doppiogiochismo, tradimento e simili. La tesi accennata può non essere in contrasto con quella, più generalmente sostenuta, dell’omicidio ordinato dal PCI: e quest’ultima può contenere la prima, ma è macchinosa e romanzesca.

La Storia d’Italia della Mondadori infine, inserisce un’altra variante: la squadra di sedicenti partigiani, o gappisti, sarebbe stata "guidata da una ragazza il cui padre era stato bastonato da Arpinati". Si riferisce forse alla ragazza che Giancarla descrive con la bava alla bocca, nella sua allucinante testimonianza. La variante è interessante, ed è anche verosimile, ma non è ulteriormente provata e in ogni caso non aggiunge nulla alla tragica vicenda.

Sauro Onofri, nel suo documentato Il triangolo rosso, attribuisce l’assassinio a "tre o quattro partigiani della brigata Paolo". E’ la stessa brigata dell’etterato sterminio della famiglia Govoni, i cui sette fratelli uccisi costituirono l’esatto pendant dei sette fratelli Cervi; così come l’omicidio dell’ingegner Weber (della ditta di carburatori d’automobile) a Bologna è il precedente esatto dell’omicidio dell’ingegner Vischi, delle Reggiane, a Reggio Emilia. Ma questa famigerata e fantomatica brigata Paolo, ignota fino ad allora, non era probabilmente altro che un gruppo della 7a GAP. Onofri adombra anche l’ipotesi che Arpinati fosse compreso nella lista degli "agrari" da far fuori prima del ritorno alla legalità.

La verità sostanziale è che Arpinati e Nanni furono "esecutati" da un gruppo di gappisti comunisti che si sentivano legittimati dall’ordine del CLNAI, ripetuto da Barontini. Si può discutere se la decisione fu presa dall’alto (almeno a livello di Bologna) o se fu l’eccesso di zelo di un gruppo; ma gli esecutori furono in seguito protetti dal PCI col metodo classico della fuga organizzata in Jugoslavia, ciò che non sarebbe stato fatto per degli assassini "in proprio", estranei al partito.

Dopo il primo comunicato di Radio Bologna, sulla storia di Malacappa si stese un lungo, pesante, interessato silenzio.